Dresda è una città d’arte di valore indescrivibile. Si inserisce a pieno titolo nel gruppo delle grandi città europee. Vanta straordinari esempi di architettura e piazze bellissime, all’epoca ancora semidistrutte. L’Opera era interessata da lavori di ristrutturazione a sostegno delle parti rimaste. La devastazione di una vasta area non impediva che il teatro fosse fruibile al suo interno. Un anno dopo, al mio ritorno, a muro caduto, ma con ancora la DDR in piedi, vidi che avevano pensato di installare un pannello su cui era rappresentata la parte mancante a completamento della facciata. Quell’anno ebbi l’onore di assistere alla messa in scena dello “Zauberfloete” di Mozart. Suonava la Filarmonica di Berlino. Un’esperienza da pelle d’oca. Ci andai con mia madre, indossando un vestito di mio nonno (non avevo portato vestiti adatti per l’Opera). A Dresda anche l’ultimo del popolo poteva permettersi un biglietto per l'Opera, però occorreva un minimo senso del decoro. Per me fu un problema e anche per mia madre. Lei era vestita da contadina tedesca dell’Est, sembrava uscita da una fattoria ed io col mio vestito mezzo gessato, marrone, della prima metà del Novecento... ci stavo dentro almeno una volta e mezza... quasi da fare i risvolti ai pantaloni. Ci presentammo così.
La periferia e l’hinterland di Dresda erano fatti di piccoli paesi. Non c'erano solo casermoni, ma anche case alte al massimo tre piani, con un piccolo spazio di verde e un cancelletto. Le strade erano bucate dappertutto, chi guidava faceva zig-zag. I responsabili dei lavori di manutenzione erano dipendenti statali che non avrebbero perso l’impiego nemmeno se in una di quelle buche ci avessero messo la moglie, per cui se ne fregavano delle riparazioni. Non mancava il cemento, mancava la voglia di fare. Il sistema si muoveva con estrema lentezza. Mio zio Stefan lavorava in una falegnameria per circa sei ore al giorno, con grande flemma. A cinquant’anni passati si sentiva “seduto”. Aveva una bellissima casa di sei locali che da noi te la sogni, uno stipendio normale, senza doversi particolarmente impegnare. Questa cosa lo aveva fatto “sedere”. Lo aveva spossato, privandolo di spinta e di iniziativa. Non si poneva il problema della qualità, dei principi e dei diritti. Osservava placido quello che accadeva, godendo dell’essenzialità. Si pensava che in terra socialista non potesse verificarsi l’alienazione dal lavoro, ben conosciuta nei paesi occidentali. Non c’erano stimoli di nessun genere, non c’era altro dal momento che non ci si doveva più preoccupare del proprio contributo attivo alla produzione, alla distribuzione del prodotto e alla sua vendita. C’era una redistribuzione continua di risorse limitate. La pianificazione era visibile, una pianificazione non progressista, però applicata con la capacità di essere vicini all’Occidente rispetto ad altri paesi dove c’era quasi sempre l’austerity. In Germania Est si vide una certa propensione a tenere il passo, sia per la vicinanza alla Repubblica Federale, sia per la cultura tedesca del lavoro. La gente era annichilita nel senso del non avere necessità, bisogni particolari. Erano gli stimoli americani e occidentali a spingere perché qualcosa nascesse. Per il popolo il pericolo era il "grande sonno".
continua...
giovedì 8 ottobre 2009
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