Nel 1990, accompagnata da un’amica che collaborava come me col Teatro Donizetti di Bergamo, mi recai a Tver, cittadina situata a 150 km da Mosca. Mi occupavo delle riprese. Facevamo parte di una delegazione composta da bergamaschi dello spettacolo, dell’artigianato e da rappresentanti della Camera di Commercio. L’obiettivo delle autorità italiane era l’instaurazione di costanti rapporti tra le due città. L’anno seguente alcuni rappresentanti di Tver avrebbero ricambiato la visita.
Fummo persino ospiti del console italiano in una villa tanto bella quanto blindata. Visitammo tutto il visitabile, la fabbrica delle ricamatrici che ricamavano le tovaglie, altri luoghi che interessavano gli operatori dell’artigianato e del commercio. A teatro era stato allestito uno spettacolo apposta per noi. Assistemmo ad un tipico balletto russo nella serata di gala.
A Mosca, all’arrivo, seppi che il mio bagaglio era stato perso. Per riuscire a recuperarlo dovetti percorrere il tragitto Mosca – Tver tre volte in tre giorni. Ci muovevamo con la traduttrice, che ci seguì anche in questa circostanza. Lo smarrimento del bagaglio costò ore di attesa in aeroporto. Era inverno. Che freddo! Tanta neve, strade dissestate, grande spaesamento. Alloggiavamo un po’ fuori Tver, in un albergo per turisti che non passavano certo da lì. Si trattava, più che altro, di un albergo per uomini d’affari e agenti di commercio, con un gran giro di prostitute. La notte c’era un casino micidiale! Colazione e cena si facevano in hotel. Per me, vegetariana, fu un disastro! Servivano formaggetti, minestroni di rapa e cavoli… era difficile capire dove c’era e dove non c’era la carne. Avevamo una serie di accompagnatori, tra cui un professore russo, che parlavano molto bene l’inglese e ci raccontavano un sacco di storie. Fu difficile trovare del cibo vegetale. D’altra parte, mi pesava il conseguente disagio arrecato a gente che abitualmente faceva fatica a mangiare bene. Gli accompagnatori russi erano felicissimi di passare la settimana con noi. Mangiavano in albergo. Per loro il menu era ricco e raffinato: cibo russo e pasti completi. Il professore, dopo aver compreso che ero vegetariana, appoggiò il capo sulla mia spalla, sconsolato. Mi sentii una merda. Loro si sarebbero mangiati le gambe del tavolo e io “la carne non la mangio!”. I russi a fine cena si portavano via spudoratamente tutto ciò che avanzava. Pacchettini, stagnola, sacchetti da casa… così spariva ogni briciola dal tavolo! A fine soggiorno i nostri accompagnatori ci fecero una sorpresa. Avevano organizzato una colletta per comprarci delle banane! La cosa più buona, più esotica che si potesse comprare! Per tutto il giorno, felici, ci avevano ripetuto “stasera ci sarà una sorpresa per voi”, pregustando il momento in cui ce le avrebbero consegnate. Una banana a testa! Quella sera, dopo un attimo di smarrimento, capimmo che la sorpresa era proprio quella. Mostrammo entusiasmo e tentammo di dividerle con loro, in quanto le banane erano contate.
Per tutte le visite di cortesia alle fabbriche (solitamente una al mattino ed una al pomeriggio) era previsto un rinfresco a base di dolcetti e “tverskaya”, una versione locale della vodka, un liquore color beige. Le merende e le colazioni di metà mattina erano a base di tverskaya. L’eventuale rifiuto avrebbe comportato una grandissima offesa. Vassoi di pasticcini e liquorino, che dovevi bere! La cena del console era stata devastante per quantità di portate e brindisi, infiniti: un brindisi agli amici di Bergamo, tutti in piedi e giù bicchierino, poi un brindisi agli amici di Tver, un brindisi a… che bevuta! Ci regalarono una bottiglia di tverskaya da portare in Italia, che io conservai senza metterci mano per due anni, nonostante la vodka mi piacesse molto. Era troppo pesante. Ogni sera venivano in hotel quelli del cambio nero, i tipi con i colbacchi dell’esercito e i Raketa. Spendemmo tutti i nostri soldi. Il mio Raketa si guastò molto presto. Purtroppo il mio orologiaio si rifiutò di effettuare la riparazione. Non era possibile. Feci delle riprese. Partecipammo ad una funzione ortodossa, per poi essere invitati a pranzo dal pope: grandi brindisi di tverskaya anche a casa sua. Nella chiesa, bellissima e buia, canti fantastici, riti suggestivi. Insomma, un trattamento super.
Tver non era una città di particolare bellezza, ma non dava l’impressione di essere povera. Era dignitosa. La gente non era certo vestita alla moda, il loro sembrava l’abbigliamento degli anni ‘60, signore truccatissime e permanente.
Giravamo per la città sempre sorvegliati a vista. Ci lasciarono una sola mattinata libera, per il resto ci si spostava sempre con pullman e traduttrice. Un giorno, fuori dall’albergo, mentre facevo alcune riprese, apparvero dei tizi nerboruti che misero le mani sulla telecamera, dicendo che non si poteva riprendere. Come ci spiegò poi la traduttrice, anche se non si trattava di edifici con sedi di esercito o polizia o del governo non si potevano fare riprese non autorizzate, neanche al paesaggio. Gita a Mosca, ai classici posti. Sotto la neve passeggiavano coppie di sposi che si facevano fotografare sulla Piazza Rossa, davanti al Mausoleo. Ai Gum non c’era niente, reparto dopo reparto, tutto vuoto, come se fosse in chiusura. C’era uno che aveva un mucchio di pantaloni, identici, unico modello. Un altro che vendeva cerniere e cose da cucito, un altro con cappelli tutti uguali. Il palazzo era stupendo, ma non c’era nulla da comprare. Ci portarono all’Intershop, dove si potevano trovare le Marlboro. Ci volevano andare soprattutto gli accompagnatori, per fare acquisti straordinari. Ci chiesero di cambiare soldi con loro per poter comprare in dollari. Ci portarono due volte, insistendo. Ma non c’era paragone col supermercato di Berlino Est. A Mosca mi colpirono le meravigliose librerie e i negozi di giocattoli in legno, veramente straordinari, che qui in Italia si sarebbero potuti rivendere a carissimo prezzo: cavallini di legno, costruzioni in legno... Le librerie vendevano testi con fantastiche illustrazioni per bambini. Erano immense… libri curati, di qualità. C’erano reparti infiniti. Comprammo qualche libro per bambini e album di manifesti a tema: ecologia, pace, Lenin …
lunedì 15 giugno 2009
giovedì 11 giugno 2009
25° puntata - Cecilia - parte 1/2
Nell’agosto del 1986 Cecilia si trovava a Berlino Ovest con due amiche, punk come lei, per studiare la lingua tedesca. Era d’obbligo la gita a Berlino Est.
Provavamo un certo timore al pensiero di andare a Berlino Est. Premetto che per arrivare a Berlino Ovest, in treno, dall’Italia, serviva il passaporto e le autorità avevano impiegato parecchio tempo a rilasciarmelo. Quindi c’era un po’ di paranoia. Inoltre, alcuni amici punk ci dissero che, per gente vestita come noi, potevano sorgere problemi nei transiti da e per la zona Est. Ci consigliarono di evitare il Check-point Charlie, suggerendo di passare dalla Friedrichstrasse.
In entrata nessun problema. Vidi grandi mucchi di macerie. I maestosi palazzi dell’Est, le case e i monumenti erano ancora distrutti. Il solo edificio davvero in ordine era lo sfolgorante Palast der Republik (il palazzo del Parlamento), completamente ricoperto di specchi. Ospitava, tra le altre cose, una sala da ballo, un cinema e un ristorante. Era un luogo di ritrovo e di divertimento. Lampadari enormi, sfavillanti… stupendo! I monumenti circostanti si riflettevano sugli specchi. La facciata principale era dominata dal simbolone del “compasso e martello”. In giro per il centro, a noi noto per la Alexander Platz, la fontana con gli zampilli, Karl Marx Allee e i mosaici con le figure dei lavoratori, tentavamo di scovare le cose che non andavano. Il nostro spirito era critico nei riguardi dell’Est.
Dovetti impegnarmi per decidere come spendere quei venticinque marchi orientali del cavolo che portavo con me! Fu un’impresa! Non sapevo come disfarmene, non c’era niente di interessante in vendita. Per cui si destinava tutto ai dischi o ai prodotti del grosso supermercato a più piani della Alexander Platz, tipo Rinascente, che aveva i classici reparti di abbigliamento, anche per bambini, e, nell’interrato, gli alimentari. Per ore studiammo i prodotti, le etichette, non riuscendo però ad apprezzare le merci nel modo appropriato, ad eccezione di quelle del reparto dischi, che si distingueva per un’importante sezione di musica classica, e del settore cartoleria, ricco di prodotti in carta riciclata che in Italia sarebbero costati moltissimo. Da noi si trovavano di rado, mentre lì costituirono il nostro acquisto più rilevante… quaderni in vari formati con la copertina verde, tutti con lo stesso logo di produzione. Acquistai la bandiera, un disco del Coro dell’Armata Rossa e poi… giù nel supermercato alimentare, che era uno spettacolo… vedevi delle robe! Per il latte usavano un solo tipo di bottiglia, identico per tutte le qualità di latte! Ogni cosa era confezionata in sacchetti di carta, non c’erano sacchetti di plastica! Pochissima scelta… un solo tipo di farina, un solo tipo di zucchero, un solo tipo di biscotti. In attesa di determinati (preannunciati) approvvigionamenti, la gente gironzolava all’interno del supermercato. La cioccolata era pessima, non era che un suo surrogato. Alle casse vedevi carrelli piccolissimi e carta da pacchi per avvolgere gli acquisti. Che paura per il controllo all’uscita dall’Est! A Berlino Est c’erano i punk, ma non erano visibili. Noi, invece, davamo nell’occhio. La perquisizione ci preoccupava. Al signore straniero davanti a noi rivoltarono abiti e borsa, lo spogliarono… quei VoPos sempre incazzati, coi musi durissimi, antipatici, con la fama dei cafoni. I marchi orientali non si potevano portare fuori e noi avevamo paura che ci trovassero addosso i pfennig rimasti. Non eravamo tranquille. Che paranoia! Il VoPos ci fece aprire gli zaini, ma si sciolse in un sorriso fino alle orecchie nello scorgere il disco dell’Armata Rossa. Visto il disco, decise di lasciarci andare. Quell’anno, in un’occasione, presi la metropolitana all’Ovest. Ricordo i passaggi del treno nella zona orientale in stazioni chiuse. Il convoglio rallentava in prossimità delle stazioni abbandonate, i cui rivestimenti erano costituiti da mattonelle sporche, impolverate. Stazioni vuote, illuminate dai neon… tristezza infinita. Era brutto attraversare quei luoghi. L’anno successivo (1987), durante un giro in centro a Berlino Est, uscimmo dai percorsi abituali e ci perdemmo. Non c’erano più negozi né punti di riferimento. Lasciando il centro, ci trovammo nella desolazione più totale. C’era ancora qualche vecchio locale, ma non aiutava. Nuovamente, grossi acquisti di libri, dischi, che non costavano niente, e un tamburo di latta. Avevo visto il film e sapevo di poterlo trovare solo nei negozi dell’Est… rosso e bianco, con la plastica al posto della pelle. Per mio papà comprai un disco a caso, era di un compositore dell’Est, Hans Eisler (che lavorava Kurt Weil) e aveva musicato tante cose di Brecht. Vi trovai all’interno il “Canto del Fronte Unito dei Lavoratori”. Insomma, ho bei ricordi di shopping! Tornai ancora a Berlino Est in inverno, tra il 1987 e 1988. Faceva molto freddo. Evitai di girare per le strade. Finalmente riuscii a visitare il Museo di Pergamo e altre interessanti attrattive, tra cui una galleria con quadri d’arte moderna. I guardiani del museo d’arte moderna erano più che pensionati, vecchietti e vecchiette, seduti sulla seggiolina, a controllare il viavai. Quella volta, nell’accompagnarci a Berlino Est, il fidanzato della mia amica ebbe non pochi problemi. Era il tipico italiano, nero di capelli, ricciuto e barbuto. Fu trattenuto per alcuni interminabili istanti perché scambiato per un turco!
continua...
Provavamo un certo timore al pensiero di andare a Berlino Est. Premetto che per arrivare a Berlino Ovest, in treno, dall’Italia, serviva il passaporto e le autorità avevano impiegato parecchio tempo a rilasciarmelo. Quindi c’era un po’ di paranoia. Inoltre, alcuni amici punk ci dissero che, per gente vestita come noi, potevano sorgere problemi nei transiti da e per la zona Est. Ci consigliarono di evitare il Check-point Charlie, suggerendo di passare dalla Friedrichstrasse.
In entrata nessun problema. Vidi grandi mucchi di macerie. I maestosi palazzi dell’Est, le case e i monumenti erano ancora distrutti. Il solo edificio davvero in ordine era lo sfolgorante Palast der Republik (il palazzo del Parlamento), completamente ricoperto di specchi. Ospitava, tra le altre cose, una sala da ballo, un cinema e un ristorante. Era un luogo di ritrovo e di divertimento. Lampadari enormi, sfavillanti… stupendo! I monumenti circostanti si riflettevano sugli specchi. La facciata principale era dominata dal simbolone del “compasso e martello”. In giro per il centro, a noi noto per la Alexander Platz, la fontana con gli zampilli, Karl Marx Allee e i mosaici con le figure dei lavoratori, tentavamo di scovare le cose che non andavano. Il nostro spirito era critico nei riguardi dell’Est.
Dovetti impegnarmi per decidere come spendere quei venticinque marchi orientali del cavolo che portavo con me! Fu un’impresa! Non sapevo come disfarmene, non c’era niente di interessante in vendita. Per cui si destinava tutto ai dischi o ai prodotti del grosso supermercato a più piani della Alexander Platz, tipo Rinascente, che aveva i classici reparti di abbigliamento, anche per bambini, e, nell’interrato, gli alimentari. Per ore studiammo i prodotti, le etichette, non riuscendo però ad apprezzare le merci nel modo appropriato, ad eccezione di quelle del reparto dischi, che si distingueva per un’importante sezione di musica classica, e del settore cartoleria, ricco di prodotti in carta riciclata che in Italia sarebbero costati moltissimo. Da noi si trovavano di rado, mentre lì costituirono il nostro acquisto più rilevante… quaderni in vari formati con la copertina verde, tutti con lo stesso logo di produzione. Acquistai la bandiera, un disco del Coro dell’Armata Rossa e poi… giù nel supermercato alimentare, che era uno spettacolo… vedevi delle robe! Per il latte usavano un solo tipo di bottiglia, identico per tutte le qualità di latte! Ogni cosa era confezionata in sacchetti di carta, non c’erano sacchetti di plastica! Pochissima scelta… un solo tipo di farina, un solo tipo di zucchero, un solo tipo di biscotti. In attesa di determinati (preannunciati) approvvigionamenti, la gente gironzolava all’interno del supermercato. La cioccolata era pessima, non era che un suo surrogato. Alle casse vedevi carrelli piccolissimi e carta da pacchi per avvolgere gli acquisti. Che paura per il controllo all’uscita dall’Est! A Berlino Est c’erano i punk, ma non erano visibili. Noi, invece, davamo nell’occhio. La perquisizione ci preoccupava. Al signore straniero davanti a noi rivoltarono abiti e borsa, lo spogliarono… quei VoPos sempre incazzati, coi musi durissimi, antipatici, con la fama dei cafoni. I marchi orientali non si potevano portare fuori e noi avevamo paura che ci trovassero addosso i pfennig rimasti. Non eravamo tranquille. Che paranoia! Il VoPos ci fece aprire gli zaini, ma si sciolse in un sorriso fino alle orecchie nello scorgere il disco dell’Armata Rossa. Visto il disco, decise di lasciarci andare. Quell’anno, in un’occasione, presi la metropolitana all’Ovest. Ricordo i passaggi del treno nella zona orientale in stazioni chiuse. Il convoglio rallentava in prossimità delle stazioni abbandonate, i cui rivestimenti erano costituiti da mattonelle sporche, impolverate. Stazioni vuote, illuminate dai neon… tristezza infinita. Era brutto attraversare quei luoghi. L’anno successivo (1987), durante un giro in centro a Berlino Est, uscimmo dai percorsi abituali e ci perdemmo. Non c’erano più negozi né punti di riferimento. Lasciando il centro, ci trovammo nella desolazione più totale. C’era ancora qualche vecchio locale, ma non aiutava. Nuovamente, grossi acquisti di libri, dischi, che non costavano niente, e un tamburo di latta. Avevo visto il film e sapevo di poterlo trovare solo nei negozi dell’Est… rosso e bianco, con la plastica al posto della pelle. Per mio papà comprai un disco a caso, era di un compositore dell’Est, Hans Eisler (che lavorava Kurt Weil) e aveva musicato tante cose di Brecht. Vi trovai all’interno il “Canto del Fronte Unito dei Lavoratori”. Insomma, ho bei ricordi di shopping! Tornai ancora a Berlino Est in inverno, tra il 1987 e 1988. Faceva molto freddo. Evitai di girare per le strade. Finalmente riuscii a visitare il Museo di Pergamo e altre interessanti attrattive, tra cui una galleria con quadri d’arte moderna. I guardiani del museo d’arte moderna erano più che pensionati, vecchietti e vecchiette, seduti sulla seggiolina, a controllare il viavai. Quella volta, nell’accompagnarci a Berlino Est, il fidanzato della mia amica ebbe non pochi problemi. Era il tipico italiano, nero di capelli, ricciuto e barbuto. Fu trattenuto per alcuni interminabili istanti perché scambiato per un turco!
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lunedì 8 giugno 2009
24° puntata - Mariangela - parte 6/6
Seguirono quattro giorni a Mosca. In principio, a causa dei continui spostamenti, sembravamo degli ubriaconi. Stare a Mosca era… come essere tornati a casa! Vidi le opere della Galleria Tret’jakov, ma non entrai nel mausoleo di Lenin. Preferii aspettare fuori e gustarmi quella meraviglia del cambio della guardia col passo dell’oca… Mosca fu: GUM, Raketa, cambio, pochi rapporti con le persone. C’era già molto turismo sulla Piazza Rossa e sull’Arbat (effetto Gorbaciov). Che strana impressione trovare le persone anziane all’ingresso delle metropolitane intente a chiedere la carità. Tutto era ancora in piedi! Le signore vendevano le cose di casa… le vidi lì per la prima volta nella mia vita. Parlammo con un taxista, uno di quelli che dicevano che così non si poteva andare avanti per molto, che doveva succedere qualcosa, che non ci rendevamo conto, che Gorbaciov era una persona adatta al contatto con l’estero e che somigliava ai nostri uomini politici, che era per questo che ci piaceva, che non somigliava a nessuno dei loro uomini politici precedenti, quelli non andavano bene ma neanche questo andava bene… Parlava di Chernobyl, chiedeva se ne avessimo sentito parlare, chiedeva cosa ne pensassimo. Più ci avvicinavamo ai problemi dell’URSS, più la conoscevamo e più ci accorgevamo che non ci stavamo capendo niente. Gorbaciov nella nostra visione era una cosa, nella loro visione era un’altra persona. Ci fece l’esempio di Chernobyl.
Trovammo sempre qualcuno disponibile a darci indicazioni o informazioni, non accadde mai che qualcuno ci dicesse “non ho tempo, non ho voglia”, anche se stava lavorando. Erano vestiti da Est. Non c’erano contaminazioni. Le scarpe erano brutte. Le scarpe erano una di quelle merci che non c’erano mai, merci da coda. Invece, i pattini da ghiaccio c’erano dappertutto, anche in Uzbekistan. La città non mi parve trascurata, solo un po’ malinconica.
Visitai Praga molto prima dell’URSS. Vi arrivai nel 1985 con due amiche, in treno, via Vienna. Trovammo un albergo per trascorrervi il Capodanno. Un freddo… bellissimo, con la neve. Fuori era pieno di gente. Passammo il Capodanno in un dopolavoro, in una tipica sala praghese dell’Ottocento, con divani, velluto, orchestrina un po’ triste, la champagnaskaja (avevano prodotti russi), signori di cinquant’anni che ci invitavano a ballare facendo l’occhiolino, divertente… fuori c’era una montagna di neve!
A Praga non ci fu modo di relazionarsi, erano diversi dai russi, ma i signori ballerini furono molto gentili e corretti.
Dormimmo in due alberghi. Tre notti nel primo, molto bello, il resto del soggiorno nel secondo. La stanza, caldissima, era grande due volte casa mia. Andavamo a mangiare nelle Kavarna, sempre piene di gente del luogo. Una volta, arrivando tardi, trovammo la cucina chiusa (chiudevano alle ventuno e trenta) e optammo per una birreria che aveva delle cose un po’ raffazzonate. Ci ronzavano intorno gruppi di maschietti italiani. Purtroppo non imbroccammo mai con i cechi, che erano molto carini. Prima di ripartire, conoscemmo un ragazzo di Modena che era venuto a trovare lo zio comunista. Il buon uomo, dopo la guerra di liberazione, aveva pensato che, se il comunismo non si poteva far arrivare in Italia, vi ci sarebbe andato lui. Giunto in Cecoslovacchia, si era sposato e non era più tornato. Domandammo al giovane dei pensieri di suo zio. Lo zio diceva di essere un po’ deluso per com’era andata.
Trovammo sempre qualcuno disponibile a darci indicazioni o informazioni, non accadde mai che qualcuno ci dicesse “non ho tempo, non ho voglia”, anche se stava lavorando. Erano vestiti da Est. Non c’erano contaminazioni. Le scarpe erano brutte. Le scarpe erano una di quelle merci che non c’erano mai, merci da coda. Invece, i pattini da ghiaccio c’erano dappertutto, anche in Uzbekistan. La città non mi parve trascurata, solo un po’ malinconica.
Visitai Praga molto prima dell’URSS. Vi arrivai nel 1985 con due amiche, in treno, via Vienna. Trovammo un albergo per trascorrervi il Capodanno. Un freddo… bellissimo, con la neve. Fuori era pieno di gente. Passammo il Capodanno in un dopolavoro, in una tipica sala praghese dell’Ottocento, con divani, velluto, orchestrina un po’ triste, la champagnaskaja (avevano prodotti russi), signori di cinquant’anni che ci invitavano a ballare facendo l’occhiolino, divertente… fuori c’era una montagna di neve!
A Praga non ci fu modo di relazionarsi, erano diversi dai russi, ma i signori ballerini furono molto gentili e corretti.
Dormimmo in due alberghi. Tre notti nel primo, molto bello, il resto del soggiorno nel secondo. La stanza, caldissima, era grande due volte casa mia. Andavamo a mangiare nelle Kavarna, sempre piene di gente del luogo. Una volta, arrivando tardi, trovammo la cucina chiusa (chiudevano alle ventuno e trenta) e optammo per una birreria che aveva delle cose un po’ raffazzonate. Ci ronzavano intorno gruppi di maschietti italiani. Purtroppo non imbroccammo mai con i cechi, che erano molto carini. Prima di ripartire, conoscemmo un ragazzo di Modena che era venuto a trovare lo zio comunista. Il buon uomo, dopo la guerra di liberazione, aveva pensato che, se il comunismo non si poteva far arrivare in Italia, vi ci sarebbe andato lui. Giunto in Cecoslovacchia, si era sposato e non era più tornato. Domandammo al giovane dei pensieri di suo zio. Lo zio diceva di essere un po’ deluso per com’era andata.
giovedì 4 giugno 2009
23° puntata - Mariangela - parte 5/6
Partimmo per l’Uzbekistan. Taskent, città poco interessante, rasa al suolo dal terremoto del 1966 e completamente ricostruita, conserva un monumento, un grande cubo saettato spaccato in due, a memoria dell’evento disastroso. Dormivamo al decimo piano di un mastodontico albergo, un'altissima torre. Affacciandosi alla finestra, tenendo come riferimento gli altri palazzi, si poteva percepire chiaramente un’oscillazione. L’impressione fu grande. Barbara diceva che lì si muoveva sempre tutto e che erano abituati ai terremoti.
Da un punto di vista monumentale e architettonico non c’era molto da vedere. Bello il clima, 40 gradi ventilati! Colori violenti, piante, fontane dappertutto, bambini dentro le fontane, gente in giro. Visitammo un bruttissimo monumento ai caduti, dove gli sposi andavano a fare le foto. Sul piccolo aereo ad elica, che da Taskent portava a Samarcanda, viaggiammo coi meloni, meloni che andavano da tutte le parti. Sotto di noi si stendeva un deserto brutto, piatto, fatto di terra e cespugli secchi. Samarcanda doveva sembrare un miraggio per chi vi si recava a piedi, o con gli animali, nel passato. Alla fine del deserto c’è una cosa blu: è Samarcanda! Fantastica la grande piazza delle tre medressa colorate di blu turchese! Nel primo cortile di una di esse mi lasciarono entrare, ma non oltre… sono una donna.
Samarcanda era speciale… città bellissima che, all’epoca del viaggio, cadeva un po’ a pezzi… la stavano restaurando. Dopo la visita all’osservatorio astronomico di Ulughbek e al solito museo folk, ci separammo dal gruppo per gustare l’atmosfera del mercato tipicamente orientale. Lunghissimi banchi, montagne di verdure, colori pazzeschi, il “testaio” che vendeva teste di animale coperte dalle mosche, stoffe tradizionali che tutti indossavano, pantaloni fatti a strisce di tutti i colori. Sergio e un altro ragazzo portavano i classici bermuda. Gli si avvicinò una signora uzbeka. Preso Sergio sotto braccio, lo condusse fino ad un banco dove vendevano pantaloni lunghi. Il messaggio era: sei un uomo, non devi portare i calzoncini corti! I ragazzi si comprarono dei pantaloni lunghi e li indossarono subito. Lei era tutta contenta. Ci chiese da dove venivamo… “Ah l’Italia!”. Sembrava di essere fuori dal mondo. Cosa avevano di strano le persone? Avevano gli occhi azzurri su una faccia mongola!
I viaggi tradizionali non prevedevano la visita del mercato. Comprai degli orecchini molto carini, contrattando un pochino. Nessuno ci chiese niente, né Raketa, né cambio. Ci chiedevano dell’Italia, di Firenze, qualcuno sapeva cosa c’era a Firenze, erano molto incuriositi dal fatto che fossimo in mezzo al mercato da soli. Comprammo delle stoffe facendo un po’ di scena, un po’ di contrattazione da loro tanto gradita. Io detesto contrattare, ma, per stare al gioco, contrattavo anche sul mezzo rublo per poi comprare al prezzo che volevano. Vendevano cose bellissime.
La sera ci fu uno spettacolo di luci e suoni in piazza. Raccontavano, nella loro lingua, dell’epopea di Tamerlano.
continua...
Da un punto di vista monumentale e architettonico non c’era molto da vedere. Bello il clima, 40 gradi ventilati! Colori violenti, piante, fontane dappertutto, bambini dentro le fontane, gente in giro. Visitammo un bruttissimo monumento ai caduti, dove gli sposi andavano a fare le foto. Sul piccolo aereo ad elica, che da Taskent portava a Samarcanda, viaggiammo coi meloni, meloni che andavano da tutte le parti. Sotto di noi si stendeva un deserto brutto, piatto, fatto di terra e cespugli secchi. Samarcanda doveva sembrare un miraggio per chi vi si recava a piedi, o con gli animali, nel passato. Alla fine del deserto c’è una cosa blu: è Samarcanda! Fantastica la grande piazza delle tre medressa colorate di blu turchese! Nel primo cortile di una di esse mi lasciarono entrare, ma non oltre… sono una donna.
Samarcanda era speciale… città bellissima che, all’epoca del viaggio, cadeva un po’ a pezzi… la stavano restaurando. Dopo la visita all’osservatorio astronomico di Ulughbek e al solito museo folk, ci separammo dal gruppo per gustare l’atmosfera del mercato tipicamente orientale. Lunghissimi banchi, montagne di verdure, colori pazzeschi, il “testaio” che vendeva teste di animale coperte dalle mosche, stoffe tradizionali che tutti indossavano, pantaloni fatti a strisce di tutti i colori. Sergio e un altro ragazzo portavano i classici bermuda. Gli si avvicinò una signora uzbeka. Preso Sergio sotto braccio, lo condusse fino ad un banco dove vendevano pantaloni lunghi. Il messaggio era: sei un uomo, non devi portare i calzoncini corti! I ragazzi si comprarono dei pantaloni lunghi e li indossarono subito. Lei era tutta contenta. Ci chiese da dove venivamo… “Ah l’Italia!”. Sembrava di essere fuori dal mondo. Cosa avevano di strano le persone? Avevano gli occhi azzurri su una faccia mongola!
I viaggi tradizionali non prevedevano la visita del mercato. Comprai degli orecchini molto carini, contrattando un pochino. Nessuno ci chiese niente, né Raketa, né cambio. Ci chiedevano dell’Italia, di Firenze, qualcuno sapeva cosa c’era a Firenze, erano molto incuriositi dal fatto che fossimo in mezzo al mercato da soli. Comprammo delle stoffe facendo un po’ di scena, un po’ di contrattazione da loro tanto gradita. Io detesto contrattare, ma, per stare al gioco, contrattavo anche sul mezzo rublo per poi comprare al prezzo che volevano. Vendevano cose bellissime.
La sera ci fu uno spettacolo di luci e suoni in piazza. Raccontavano, nella loro lingua, dell’epopea di Tamerlano.
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lunedì 1 giugno 2009
22° puntata - Mariangela - parte 4/6
Dall’Armenia fummo catapultati in Georgia, a Tbilisi, città circondata da montagne e colline, molto verde, ricchissima d’acqua (un fiume l’attraversa), tripudio di meloni, tutti i frutti, case con balconi di legno e montanti decorati, bellissima! Anche lì c’era casino, ma senza carri armati. Loro erano degli squinternati. In ogni città era previsto lo shopping nei GUM. I GUM di Leningrado e Mosca erano di una tristezza infinita, con pochissima roba… ti chiedevi “ma qui cosa viene a fare la gente, non c’è niente!”. In Georgia, così come in Uzbekistan e a Jerevan, c’era tutto. Per esempio, a Tbilisi mi informai sulla possibilità di acquistare colori, acquerelli, cartoleria, strumenti di precisione, lenti e altri beni disponibili. Comprai un orologio. All’epoca ero vegetariana, fu proprio dura. Ogni tanto servivano una zuppa con “saponette” galleggianti, cioè pezzi di carne bianca, grassissima. Io mangiavo le guarnizioni di tutti, erbe e pomodori. Dopo la camminata in città, durante una sosta ai GUM, chiedemmo ad una commessa se ci fosse un bagno. Ricevute le indicazioni, ci avviammo. Nel nostro incerto girovagare, notammo una signora che, mentre parlavamo con la commessa, si trovava con noi al banco. Ci seguiva osservandoci. All’improvviso decise di avvicinarsi e, in un inglese perfetto, disse che le era parso di capire che avevamo bisogno di aiuto. Ci accompagnò alla toilette, anche perché le parole scritte in georgiano erano indecifrabili. Con aria imbarazzata spiegò che le dispiaceva di vederci in una situazione tanto strana. Pensai che si riferisse allo sporco, ma mi sbagliavo. Nel bagno delle donne c’erano i lavandini e, in fondo, i servizi veri e propri, senza porte, senza possibilità di chiudersi dentro. Qualcuno aveva appeso, per maggiore protezione, delle tende molli fatte di leggeri cordoncini che oscillavano distanziatissimi. Tutto aperto! La signora disse che capiva il mio imbarazzo. Lei uscì. Aspettai il mio turno, mi feci forza e… fu imbarazzante. La gentile signora, in realtà, aveva uno scopo. Una volta uscita, cominciò a parlare con Sergio, il mio compagno di viaggio, che aspettava fuori. Si presentò dicendogli di essere una matematica sposata con un accademico della scienza e che le sarebbe piaciuto portarci a casa sua per parlare. Voleva avere contatti con l’estero. Era travolgente e gentile fino all’eccesso. Noi provammo a spiegarle che facevamo parte di un gruppo, con tempi contingentati, che dovevamo rientrare in hotel con gli altri, che il giorno dopo saremmo ripartiti, che non eravamo in giro per conto nostro. Lei insisté. Voleva offrirci da bere e da mangiare. Fissammo quindi un appuntamento. Ci sarebbero venuti a prendere ai GUM tre ore più tardi. Sembrava una donna interessante. In appena due ore aveva preparato una tavolata di cibo impressionante, meraviglioso e buonissimo. Ci pregarono di assaggiare tutto. Incontrammo suo marito e la di lei sorella, che era un fisico. Era una famiglia di scienziati. La signora aveva smesso di lavorare all’Accademia delle Scienze in seguito alla nascita dei suoi due bambini. Smaniavano per due motivi: per chiacchierare e per chiedere se noi, dall’Italia, potevamo scrivere per fargli ottenere un visto turistico. Fu Sergio a conversare su questo argomento. Lui si era laureato in ingegneria, lavorava all’Università, di conseguenza poteva toccare temi a loro più familiari. Sergio disse che quello che poteva fare al suo ritorno era chiedere in Università, o in Ambasciata, informazioni sulla procedura. Loro erano molto preparati e dicevano che doveva fare questo e quello. Sergio ribatté che chiedere non costava nulla. Il marito veniva spesso in Europa Occidentale. Il visto sarebbe servito più a lei, che desiderava seguirlo in un viaggio nel nostro Paese. Avevano modi molto cortesi, ma quando si passò a questa discussione i toni si accesero. Raccontavano della loro vita impossibile, del fatto che i georgiani volevano l’indipendenza da sempre e non si sentivano di appartenere all’Unione Sovietica. Volevano tornare ai tempi degli eroi nazionali del XVIII secolo! “Sicuramente,” dissero “in una nostra repubblica indipendente, per noi sarebbe possibile fare tutto quello che vogliamo, come fate voi in occidente”. Sergio provò a spiegare che le cose da noi non stavano così. Parlò del sistema socialista, che aveva livellato tutti e che garantiva una base alla collettività, che certamente non dava la possibilità di emergere più di tanto… si emergeva fino ad un certo punto, nel partito o in altri ambiti controllati. Tentava di fargli capire che da noi, se non “cresci”, puoi diventare uno “spiaccicato per la strada” che nessuno cura, senza nessuna tutela, cosa che da loro non poteva succedere. Cercava di bilanciare il loro esagerato ottimismo riguardo all’avvenire dell’occidente. Di sicuro, uno come il professore da noi avrebbe avuto un altissimo tenore di vita, neanche lontanamente paragonabile a quello della sua realtà quotidiana. Lui, che aveva viaggiato in Europa e in America, lo sapeva. Ad un tratto chiesero se eravamo comunisti e noi: “Sì certo! Comunisti italiani!”. Ci attaccarono: “Ma allora voi difendete…” eccetera, eccetera, la solita storia, “Stalin…”.
La cosa andò avanti. Assolvemmo il nostro compito. La signora riuscì ad accompagnare il marito in Italia.
continua...
La cosa andò avanti. Assolvemmo il nostro compito. La signora riuscì ad accompagnare il marito in Italia.
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giovedì 28 maggio 2009
21° puntata - Mariangela - parte 3/6
C’erano in giro molti italiani. In seguito al devastante terremoto del 1988, un sacco di italiani erano andati ad aiutare, a tirar fuori gente. Camminavi per la strada e appena ti sentivano parlare gridavano: “ehi italiano!”. Un signore per strada fece proprio così “ehi italiani!”, alzando il pugno chiuso, e noi felici “ehi, compagno, tovarisc!”. Gli italiani erano molto amati. Una sera, in un locale dove si beveva, ci accorgemmo che un italiano sedeva al nostro fianco. Ci raccontò che era rimasto perché “c’era da fare”. La domanda fu: tappeti? “Eh sì, tappeti, è una buona strada”. Aveva capito che poteva fare questo export, anche se con dei limiti.
Quello che veniva fuori appena chiacchieravi con qualcuno era che Gorbaciov piaceva tanto a noi occidentali, ma che a loro non era mai piaciuto, non tanto Gorbaciov quanto Raisa Maksimovna, tutti ce l’avevano con lei, donna molto diversa da quelle dei presidenti precedenti. Anche Gorbaciov era diverso dai presidenti precedenti. Era in atto un boicottaggio, non arrivava niente di quello che doveva arrivare. A Mosca non arrivavano né sapone né sigarette. Prova a togliere le sigarette ad un russo: ti ammazza! Sono dei grandi fumatori. Ma se a te tolgono il sapone, anche tu ti incazzi! Ho visto le famose code, fuori dai GUM. Un giorno mi unii ad una coda esagerata, poi chiesi di che si trattava. Sapone. Se c’era una coda voleva dire che c’era qualcosa di interessante, io mi ci mettevo. Non arrivava sapone da sette giorni. I prodotti che giungevano dalle periferie del Paese venivano fermati alle porte di Mosca, alle porte di Leningrado, cioè alle porte dei punti vitali della struttura e sembrava che si trattasse di un blocco organizzato. Era già successo nella storia che la sospensione dell’approvvigionamento di merci di prima necessità provocasse il crollo. Quello che percepivi era disamore, non voglio dire odio nei confronti del governo, per Gorbaciov. Dicevano che lui non riusciva a risolvere i problemi. Secondo altri, questi problemi relativi al sapone o alle sigarette venivano creati ad arte da quelli che volevano silurarlo. Tutto sommato, considerato l’epilogo, poteva essere vero. Però loro erano incazzati. “Ma come?” tuonavano “Voi considerate un progressista, un liberale, quest’uomo che di fronte a un tale problema non riesce a schiodarsi, non riesce a fare in modo che questi punti di interruzione del flusso di merci vitali, indispensabili nella quotidianità, vengano tolti?”.
Era il periodo degli orologi russi “Raketa”. Allora, ad ogni passo, c’era qualcuno che ti offriva il Raketa. Se vedevi uno in un angolo con due tipi sospetti, era perché stava comprando dei Raketa. Erano bellissimi e funzionavano! Erano gli anni dell’ ”ondata sovietica”, che toccò anche la moda. Da noi “operazione simpatia”, loro invece ti dicevano che Gorbaciov era un coglione e Raisa una stronza, perché lei lo manovrava.
Visitammo alcuni interessanti siti archeologici, verso l’una del pomeriggio: c’erano quaranta gradi, senz’acqua, c’erano solo i soka. Un massacro. Entrammo anche in una chiesina ortodossa con pianta a croce, un “eremino”, antichissima, ai bordi di un lago gigante, dove trovammo un prete ortodosso, solo soletto, che si faceva fotografare e tutti lo seguivano perché era l’unico umano, in un paesaggio tipico da sud… caldo, colori accesi. Gli armeni non chiedevano mai dell’Italia, ci conoscevano… italiani compagnoni! Ci offrivano i Raketa, la vodka, il caviale nei tentativi di borsa nera, di cambio nero. Prima di cambiare, aspettammo di capire come funzionava questo cambio, perché Barbara si era raccomandata di non cambiare niente per la strada, a causa dell’alto rischio di fregatura.
continua...
Quello che veniva fuori appena chiacchieravi con qualcuno era che Gorbaciov piaceva tanto a noi occidentali, ma che a loro non era mai piaciuto, non tanto Gorbaciov quanto Raisa Maksimovna, tutti ce l’avevano con lei, donna molto diversa da quelle dei presidenti precedenti. Anche Gorbaciov era diverso dai presidenti precedenti. Era in atto un boicottaggio, non arrivava niente di quello che doveva arrivare. A Mosca non arrivavano né sapone né sigarette. Prova a togliere le sigarette ad un russo: ti ammazza! Sono dei grandi fumatori. Ma se a te tolgono il sapone, anche tu ti incazzi! Ho visto le famose code, fuori dai GUM. Un giorno mi unii ad una coda esagerata, poi chiesi di che si trattava. Sapone. Se c’era una coda voleva dire che c’era qualcosa di interessante, io mi ci mettevo. Non arrivava sapone da sette giorni. I prodotti che giungevano dalle periferie del Paese venivano fermati alle porte di Mosca, alle porte di Leningrado, cioè alle porte dei punti vitali della struttura e sembrava che si trattasse di un blocco organizzato. Era già successo nella storia che la sospensione dell’approvvigionamento di merci di prima necessità provocasse il crollo. Quello che percepivi era disamore, non voglio dire odio nei confronti del governo, per Gorbaciov. Dicevano che lui non riusciva a risolvere i problemi. Secondo altri, questi problemi relativi al sapone o alle sigarette venivano creati ad arte da quelli che volevano silurarlo. Tutto sommato, considerato l’epilogo, poteva essere vero. Però loro erano incazzati. “Ma come?” tuonavano “Voi considerate un progressista, un liberale, quest’uomo che di fronte a un tale problema non riesce a schiodarsi, non riesce a fare in modo che questi punti di interruzione del flusso di merci vitali, indispensabili nella quotidianità, vengano tolti?”.
Era il periodo degli orologi russi “Raketa”. Allora, ad ogni passo, c’era qualcuno che ti offriva il Raketa. Se vedevi uno in un angolo con due tipi sospetti, era perché stava comprando dei Raketa. Erano bellissimi e funzionavano! Erano gli anni dell’ ”ondata sovietica”, che toccò anche la moda. Da noi “operazione simpatia”, loro invece ti dicevano che Gorbaciov era un coglione e Raisa una stronza, perché lei lo manovrava.
Visitammo alcuni interessanti siti archeologici, verso l’una del pomeriggio: c’erano quaranta gradi, senz’acqua, c’erano solo i soka. Un massacro. Entrammo anche in una chiesina ortodossa con pianta a croce, un “eremino”, antichissima, ai bordi di un lago gigante, dove trovammo un prete ortodosso, solo soletto, che si faceva fotografare e tutti lo seguivano perché era l’unico umano, in un paesaggio tipico da sud… caldo, colori accesi. Gli armeni non chiedevano mai dell’Italia, ci conoscevano… italiani compagnoni! Ci offrivano i Raketa, la vodka, il caviale nei tentativi di borsa nera, di cambio nero. Prima di cambiare, aspettammo di capire come funzionava questo cambio, perché Barbara si era raccomandata di non cambiare niente per la strada, a causa dell’alto rischio di fregatura.
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lunedì 25 maggio 2009
20° puntata - Mariangela - parte 2/6
Era il periodo delle notti bianche, notti senza buio, una cosa molto strana. Cominciava ad avvicinarsi il tramonto e ci si aspettava che, verso le otto, il sole sparisse. Invece si “fermava” la luce, rimaneva un crepuscolo chiaro e la gente in giro. Erano giunte in città montagne di navi. Marinai, bellissimi, come del resto le ragazze… ragazze sulle banchine, a gruppi, come se fosse stato giorno, che facevano le stupidelle con i ragazzi sui ponti delle navi. I ponti sulla Neva si aprivano tutti insieme alle sei del mattino per far passare le imbarcazioni: aspettammo e, con un occhio solo (che stanchezza!), potemmo godere dello spettacolo dei ponti. Pieno di gente che aveva bevuto l’impossibile, così io potevo chiacchierare… tra uno che parla male la lingua e uno che ha bevuto alla fine ci si capisce. Parlavo russo, un russo elementare. Volevo tuttavia praticare la lingua, comunicare. Dormivamo in uno di quegli alberghi che puzzavano di cavolo, come la quasi totalità degli interni di quel Paese. Nei posti caldi era un po’ diverso. Gli alberghi del pacchetto viaggio non brillavano per comfort ed eleganza, ma le hall erano meravigliose. Sovietiche! Grandissime! Marmi, drappi… ahimè, bastava salire la scala e diventavano spartani. Andava bene così. La tragedia era un’altra. Non si trovava acqua da bere. Ricordo una notte di sete terribile. C’erano le signore ai piani, le digiurnaje, che controllavano, che avevano le chiave di tutto. Senza di loro non si poteva fare niente. La mia non aveva acqua. Nel corso del viaggio ci rendemmo conto che non c’era acqua minerale da nessuna parte. L’acqua del lavandino, se si lasciava scorrere, immediatamente portava due centimetri di ferro nel bicchiere e faceva schifo. Io provai a berla. Lasciava il sapore di ferro in bocca. Quindi ci torturammo bevendo i “soka”, succhi, disponibili in vari tipi, ma in realtà di un unico sapore. Molto dolci, molto zuccherati. Erano buffi, perché i gusti erano ribes, mirtillo, betulla. Un soka dolcissimo quando hai sete… poi hai sete ancora. Eravamo messi male! Però, affascinanti quei coloranti. Avevamo due accompagnatrici: Barbara, italiana, esperta, sicura e l’accompagnatrice russa obbligatoria, Tatiana, giovane e carina, soverchiata dall’italiana. Quanto alla sicurezza, nulla da segnalare. A parte un giorno, a Jerevan o in Uzbekistan… Tatiana arrivò trafelata, mentre stavamo bevendo tranquillamente un tè, dicendo “Forse lo sapete già, ma spero che non vi faccia pensare male. Hanno rubato una macchina fotografica ad un turista!”. A lei sembrava un avvenimento scandaloso, mai capitato prima. Disse che aveva preferito dircelo perché magari saremmo venuti a saperlo da qualcun altro. La vittima apparteneva ad un gruppo che non c’entrava con noi. Che sorpresa! Un furto!
A Jerevan vidi l’unico pugno (umano) alzato di tutto il viaggio in Unione Sovietica.
Un gran casino in Armenia. Armeni, abcasi e azeri avevano cominciato a randellarsi (dispute per questioni territoriali e di indipendenza, ndb) e nella capitale c’erano i carri armati. Già a Leningrado la partenza era stata incerta, fino a che non ci imbarcarono dicendo che la situazione era sotto controllo. La piazza centrale di Jerevan, enorme, meravigliosa, con le belle fontane, occupata per due terzi da carri armati faceva un po’ impressione. Molto più che sapere del furto della macchina fotografica. Secondo la spiegazione ufficiale i carri stavano lì perché la situazione era apparsa complessa fino al giorno prima, ma l’emergenza era rientrata. Che strano il colpo d’occhio! Sulla piazza principale di Jerevan spuntava il mega albergo che ci ospitava, ma che, per un’intera ala, era stato assegnato a gente in fuga dai territori sotto pressione. Guardando la facciata dell’hotel e tutta la parte a destra con i balconi pieni di panni, notai un signore sul balcone con una capretta. Ci spiegarono allora dei recenti accadimenti.
continua...
A Jerevan vidi l’unico pugno (umano) alzato di tutto il viaggio in Unione Sovietica.
Un gran casino in Armenia. Armeni, abcasi e azeri avevano cominciato a randellarsi (dispute per questioni territoriali e di indipendenza, ndb) e nella capitale c’erano i carri armati. Già a Leningrado la partenza era stata incerta, fino a che non ci imbarcarono dicendo che la situazione era sotto controllo. La piazza centrale di Jerevan, enorme, meravigliosa, con le belle fontane, occupata per due terzi da carri armati faceva un po’ impressione. Molto più che sapere del furto della macchina fotografica. Secondo la spiegazione ufficiale i carri stavano lì perché la situazione era apparsa complessa fino al giorno prima, ma l’emergenza era rientrata. Che strano il colpo d’occhio! Sulla piazza principale di Jerevan spuntava il mega albergo che ci ospitava, ma che, per un’intera ala, era stato assegnato a gente in fuga dai territori sotto pressione. Guardando la facciata dell’hotel e tutta la parte a destra con i balconi pieni di panni, notai un signore sul balcone con una capretta. Ci spiegarono allora dei recenti accadimenti.
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giovedì 21 maggio 2009
19° puntata - Mariangela - parte 1/6
Un enorme contenitore di colori, odori, luci e personaggi delle più svariate latitudini: questo è il viaggio di Mariangela in Unione Sovietica.
Era il 1989. Avevo trent’anni. L’agenzia ETLISIND aveva elaborato un itinerario massacrante che ci avrebbe portati a Leningrado, Mosca, Jerevan, Tbilisi e, soprattutto, a Taskent e Samarcanda (per noi le top della lista!) in Uzbekistan, d’estate, in ventitre giorni caratterizzati da un continuo salire e scendere dagli aerei, che alla fine ci fece provare un senso di totale spaesamento. Volammo da Milano a Mosca e, il giorno dopo, da Mosca a Leningrado. Eravamo un po’ preoccupati per questo tipo di viaggio, ma non c’era alternativa. Per compiere un giro del genere in autonomia sarebbero servite troppe cose: capacità organizzativa, tempo e molti soldi! Per non parlare dei visti!
Il tour iniziò all’insegna della rapidità di spostamento e di visita delle principali attrattive. Dopo soli tre giorni a Leningrado, partimmo per Jerevan. Ciò voleva dire lasciare qualcosa di nordico, un certo clima, una certa architettura, una certa luce, per Jerevan nel Caucaso. Facce completamente diverse! Come quando dalla Georgia, dove il clima è temperato come quello dell’Italia del Sud, dove si stava molto bene, tra persone fisicamente come noi (non hanno tratti molto diversi dai nostri), passammo in Uzbekistan. Gli uzbeki avevano qualcosa di strano, tratti mongoli ed occhi azzurri…
Prima tappa impressionante. Leningrado è una città dall’aspetto europeo, con grandi palazzi e strade larghe. In estate ha un clima meno problematico di quello invernale. Sembrava una città abbandonata, senza cure. I tram “ballavano” su binari incastrati allo sconnesso fondo stradale. In alcuni tratti le rotaie erano discontinue! I negozi sovietici… una povertà… una “melina” triste, solitaria, conciata: non c’era nulla. La città però era bellissima, con i suoi monumenti e i canali… che atmosfera!
Desideravamo staccarci il più possibile dal gruppo. Con noi, oltre ad una coppia di Livorno, con cui legammo e che avremmo rivisto in Italia, c’erano degli sfegatati comunisti per i quali tutto era perfetto e fantastico e bellissimo, ma c’erano anche i critici, che imprecavano contro le cose che non andavano bene. La cosa divertente era che noi volevamo sganciarci per andare in giro, ma alcune cose di quelle organizzate erano davvero molto curiose, in chiave sindacal-filocomunista. In ogni città si visitava il museo di arte popolare. Alcuni si rivelarono interessanti, altri meno…, Il museo di Jerevan ospitava i tappeti più belli del mondo, dal ‘200 ad oggi. Ci risparmiarono le gite in fabbrica che, invece, fino a qualche anno prima tiravano molto. Per Leningrado era stato previsto un intero giorno da trascorrere all’Ermitage. Di fronte al museo alcune signore tipicamente russe, truccate da matrioska, che avevano un “non so che” del nostro Sud, pesavano le persone. Ogni tanto qualcuno passava, gli dava una monetina e si pesava. Dopo aver visto la collezione dell’Ottocento, che ci interessava maggiormente, scappammo verso la Prospettiva Nevski per camminare e per vedere le librerie. Io studiavo russo e cercavo libri che avrei poi potuto leggere se avessi proseguito nello studio della lingua, com’era nelle mie intenzioni. La mia biblioteca personale conserva un libro che riporta un carteggio tra Dostoievski e un altro signore, un testo con copertina rossa e scritte dorate. I libri, tutti finemente rilegati, costavano pochissimo. Lì si vedeva il comunismo: bei libri a basso prezzo. Qualcuno potrebbe obiettare: sì, ma che libro? solo quello che è permesso leggere. Però, quello che è permesso è bello e costa poco! Entrammo in una bellissima libreria con grandi scaffali in legno e banconi zeppi di libri: passammo le ore cercando di comprendere il significato delle scritte sulle copertine!
continua...
Era il 1989. Avevo trent’anni. L’agenzia ETLISIND aveva elaborato un itinerario massacrante che ci avrebbe portati a Leningrado, Mosca, Jerevan, Tbilisi e, soprattutto, a Taskent e Samarcanda (per noi le top della lista!) in Uzbekistan, d’estate, in ventitre giorni caratterizzati da un continuo salire e scendere dagli aerei, che alla fine ci fece provare un senso di totale spaesamento. Volammo da Milano a Mosca e, il giorno dopo, da Mosca a Leningrado. Eravamo un po’ preoccupati per questo tipo di viaggio, ma non c’era alternativa. Per compiere un giro del genere in autonomia sarebbero servite troppe cose: capacità organizzativa, tempo e molti soldi! Per non parlare dei visti!
Il tour iniziò all’insegna della rapidità di spostamento e di visita delle principali attrattive. Dopo soli tre giorni a Leningrado, partimmo per Jerevan. Ciò voleva dire lasciare qualcosa di nordico, un certo clima, una certa architettura, una certa luce, per Jerevan nel Caucaso. Facce completamente diverse! Come quando dalla Georgia, dove il clima è temperato come quello dell’Italia del Sud, dove si stava molto bene, tra persone fisicamente come noi (non hanno tratti molto diversi dai nostri), passammo in Uzbekistan. Gli uzbeki avevano qualcosa di strano, tratti mongoli ed occhi azzurri…
Prima tappa impressionante. Leningrado è una città dall’aspetto europeo, con grandi palazzi e strade larghe. In estate ha un clima meno problematico di quello invernale. Sembrava una città abbandonata, senza cure. I tram “ballavano” su binari incastrati allo sconnesso fondo stradale. In alcuni tratti le rotaie erano discontinue! I negozi sovietici… una povertà… una “melina” triste, solitaria, conciata: non c’era nulla. La città però era bellissima, con i suoi monumenti e i canali… che atmosfera!
Desideravamo staccarci il più possibile dal gruppo. Con noi, oltre ad una coppia di Livorno, con cui legammo e che avremmo rivisto in Italia, c’erano degli sfegatati comunisti per i quali tutto era perfetto e fantastico e bellissimo, ma c’erano anche i critici, che imprecavano contro le cose che non andavano bene. La cosa divertente era che noi volevamo sganciarci per andare in giro, ma alcune cose di quelle organizzate erano davvero molto curiose, in chiave sindacal-filocomunista. In ogni città si visitava il museo di arte popolare. Alcuni si rivelarono interessanti, altri meno…, Il museo di Jerevan ospitava i tappeti più belli del mondo, dal ‘200 ad oggi. Ci risparmiarono le gite in fabbrica che, invece, fino a qualche anno prima tiravano molto. Per Leningrado era stato previsto un intero giorno da trascorrere all’Ermitage. Di fronte al museo alcune signore tipicamente russe, truccate da matrioska, che avevano un “non so che” del nostro Sud, pesavano le persone. Ogni tanto qualcuno passava, gli dava una monetina e si pesava. Dopo aver visto la collezione dell’Ottocento, che ci interessava maggiormente, scappammo verso la Prospettiva Nevski per camminare e per vedere le librerie. Io studiavo russo e cercavo libri che avrei poi potuto leggere se avessi proseguito nello studio della lingua, com’era nelle mie intenzioni. La mia biblioteca personale conserva un libro che riporta un carteggio tra Dostoievski e un altro signore, un testo con copertina rossa e scritte dorate. I libri, tutti finemente rilegati, costavano pochissimo. Lì si vedeva il comunismo: bei libri a basso prezzo. Qualcuno potrebbe obiettare: sì, ma che libro? solo quello che è permesso leggere. Però, quello che è permesso è bello e costa poco! Entrammo in una bellissima libreria con grandi scaffali in legno e banconi zeppi di libri: passammo le ore cercando di comprendere il significato delle scritte sulle copertine!
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lunedì 18 maggio 2009
18° puntata - Franco - parte 2/2
Vidi Ceausescu e la moglie durante il primo concerto che si tenne nella Sala Palatului di Bucarest, il famoso centro conferenze capace di contenere fino a 4000 persone! Oltre a loro due, erano presenti i vertici del Partito e buona parte dell’entourage di governo. Ogni poltrona aveva un altoparlante che riportava la musica allo spettatore. Un pienone! Eravamo emozionatissimi, ci tremava la voce. Il primo pezzo voluto da Germani fu proprio un quartetto vocale! Eravamo abituati a cose orchestrali, non certo a quella tensione. Non sapevamo alla partenza che saremmo stati i protagonisti di un evento di tale portata. Fu un grande successo!
Gli spettacoli cominciavano alle sette di sera, perché i ristoranti chiudevano alle undici. Noi andavamo a mangiare subito dopo i concerti, che di solito duravano un paio d’ore, appena in tempo per evitare di restare a digiuno. I ristoranti erano statali, quelli che ci lavoravano chiudevano all’orario giusto. Lo stipendio lo prendevano lo stesso. Non c’erano molte alternative. Dopo cena si facevano due passi intorno all’albergo. Per strada non c’era nessuno… ed eravamo sempre accompagnati da quelli del Partito. Alla fine del soggiorno scoprimmo che c’erano delle “cimici” nelle stanze e che una poliziotta in borghese era rimasta sempre accanto ad un nostro collega. Forse per assicurarsi che nessuno di noi potesse fungere da tramite per la fuoriuscita di notizie riservate. Mah…
Un mio collega, simpatizzante di sinistra, rimase male per quanto visto nel corso del viaggio. Tornato in Italia, ebbe parecchi ravvedimenti. Non si aspettava una repressione del genere. Lui a casa faceva la bella vita…
Frutta non ce n’era, ma si mangiava carne a volontà: ci servirono persino un ottimo “chateaubriand”. A noi non mancava nulla, né acqua, né vino, birra o sigarette. Avevamo ricevuto un anticipo in dollari in Italia. Tutti i soldi che erano stati cambiati in valuta locale per le eventuali necessità furono spesi l’ultimo giorno, visto che non avevamo comprato molto dal momento del nostro arrivo. Acquistai un phon, un giradischi e tutto ciò che era in vendita. Quei soldi fuori dalla Romania non valevano niente. Entrai in una sorta di emporio e scelsi un orribile giubbotto di pelle. I negozi avevano quattro stupidate!
I concerti erano gratuiti e sempre affollati. Le ragazze portavano rose da lanciare sul palco in segno di gradimento nei riguardi dei musicisti e foglietti da autografare che venivano raccolti dai nostri facchini, ai quali li riconsegnavamo firmati perché fossero restituiti alle fans. Nel corso della tournée suonammo pezzi diversi dal solito repertorio, fondamentalmente successi internazionali, del blues e pezzi di Remo Germani (come ad esempio la celebre “Baci”). Noi eravamo abituati a vedere il pubblico ballare… lì la gente stava a guardare senza muoversi!
Impazzivano per la musica di James Brown, per il Rhythm and Blues e per “I feel good”.
QQ
Trascorso un mese, lasciammo Bucarest diretti in Bulgaria su invito di una locale organizzazione del Partito. Fummo obbligati ad aspettare per ore alla frontiera tra i due Paesi: Nixon sarebbe passato proprio da quel confine (Agosto 1969, ndb)! Il traffico rimase bloccato per una mattinata intera sotto il sole. Finalmente arrivò il corteo di mezzi della polizia e auto blindate… tirammo un bel sospiro di sollievo.
A Sofia, durante le prove del primo concerto, i funzionari esaminarono la “scaletta” e stralciarono “I feel good”: non si poteva suonare perché, dicevano, la gente sarebbe diventata matta! I responsabili trascorsero l’intero pomeriggio di prove accanto a noi per conoscere il resto del repertorio. Ci chiesero di redigere una nuova scaletta priva di tutte le canzoni spinte: andava bene musica come “Ma l’amore no”. Nessuno doveva eccitare gli spettatori. Furono quindici giorni non particolarmente intensi, ma molto controllati, più che in Romania. Si usciva con le guide. Si faceva tutto con le guide.
Ricordo che ad un concerto la presentatrice ci chiese di smettere di suonare perché la serata era terminata. Mi voltai per appoggiare il sassofono e, girandomi di nuovo verso il pubblico, vidi che non c’era più nessuno! Impressionante! La sala si era svuotata in mezzo secondo!
Franco ci ha lasciati poche settimane dopo l’intervista. Sorrido nel ripensare al suo colorito modo di raccontare. Questo lavoro è dedicato a lui.
Gli spettacoli cominciavano alle sette di sera, perché i ristoranti chiudevano alle undici. Noi andavamo a mangiare subito dopo i concerti, che di solito duravano un paio d’ore, appena in tempo per evitare di restare a digiuno. I ristoranti erano statali, quelli che ci lavoravano chiudevano all’orario giusto. Lo stipendio lo prendevano lo stesso. Non c’erano molte alternative. Dopo cena si facevano due passi intorno all’albergo. Per strada non c’era nessuno… ed eravamo sempre accompagnati da quelli del Partito. Alla fine del soggiorno scoprimmo che c’erano delle “cimici” nelle stanze e che una poliziotta in borghese era rimasta sempre accanto ad un nostro collega. Forse per assicurarsi che nessuno di noi potesse fungere da tramite per la fuoriuscita di notizie riservate. Mah…
Un mio collega, simpatizzante di sinistra, rimase male per quanto visto nel corso del viaggio. Tornato in Italia, ebbe parecchi ravvedimenti. Non si aspettava una repressione del genere. Lui a casa faceva la bella vita…
Frutta non ce n’era, ma si mangiava carne a volontà: ci servirono persino un ottimo “chateaubriand”. A noi non mancava nulla, né acqua, né vino, birra o sigarette. Avevamo ricevuto un anticipo in dollari in Italia. Tutti i soldi che erano stati cambiati in valuta locale per le eventuali necessità furono spesi l’ultimo giorno, visto che non avevamo comprato molto dal momento del nostro arrivo. Acquistai un phon, un giradischi e tutto ciò che era in vendita. Quei soldi fuori dalla Romania non valevano niente. Entrai in una sorta di emporio e scelsi un orribile giubbotto di pelle. I negozi avevano quattro stupidate!
I concerti erano gratuiti e sempre affollati. Le ragazze portavano rose da lanciare sul palco in segno di gradimento nei riguardi dei musicisti e foglietti da autografare che venivano raccolti dai nostri facchini, ai quali li riconsegnavamo firmati perché fossero restituiti alle fans. Nel corso della tournée suonammo pezzi diversi dal solito repertorio, fondamentalmente successi internazionali, del blues e pezzi di Remo Germani (come ad esempio la celebre “Baci”). Noi eravamo abituati a vedere il pubblico ballare… lì la gente stava a guardare senza muoversi!
Impazzivano per la musica di James Brown, per il Rhythm and Blues e per “I feel good”.
Trascorso un mese, lasciammo Bucarest diretti in Bulgaria su invito di una locale organizzazione del Partito. Fummo obbligati ad aspettare per ore alla frontiera tra i due Paesi: Nixon sarebbe passato proprio da quel confine (Agosto 1969, ndb)! Il traffico rimase bloccato per una mattinata intera sotto il sole. Finalmente arrivò il corteo di mezzi della polizia e auto blindate… tirammo un bel sospiro di sollievo.
A Sofia, durante le prove del primo concerto, i funzionari esaminarono la “scaletta” e stralciarono “I feel good”: non si poteva suonare perché, dicevano, la gente sarebbe diventata matta! I responsabili trascorsero l’intero pomeriggio di prove accanto a noi per conoscere il resto del repertorio. Ci chiesero di redigere una nuova scaletta priva di tutte le canzoni spinte: andava bene musica come “Ma l’amore no”. Nessuno doveva eccitare gli spettatori. Furono quindici giorni non particolarmente intensi, ma molto controllati, più che in Romania. Si usciva con le guide. Si faceva tutto con le guide.
Ricordo che ad un concerto la presentatrice ci chiese di smettere di suonare perché la serata era terminata. Mi voltai per appoggiare il sassofono e, girandomi di nuovo verso il pubblico, vidi che non c’era più nessuno! Impressionante! La sala si era svuotata in mezzo secondo!
Franco ci ha lasciati poche settimane dopo l’intervista. Sorrido nel ripensare al suo colorito modo di raccontare. Questo lavoro è dedicato a lui.
giovedì 14 maggio 2009
17° puntata - Franco - parte 1/2
Franco era musicista, orchestrale. Al fianco di Remo Germani (celebrità degli anni ’60, ndb), fu impegnato in una lunga tournée estiva in Romania e Bulgaria. Suonava il sassofono: contralto, baritono e tenore.
Nel 1969 fummo ingaggiati da un dipartimento del PC Rumeno che organizzava spettacoli in piccoli stadi chiamati “gradina de vara”. Partimmo per la Romania con uno spazioso furgone Fiat 238. Eravamo in sei. La qualità della benzina costituì un problema per tutta la durata del viaggio. Passata la frontiera con la Jugoslavia ed effettuato il primo rifornimento di carburante notammo, infatti, che il motore “picchiava in testa”: gli ottani erano diversi. Ma non restammo mai a piedi. Invece che a 130 viaggiavamo a soli 90 km l’ora, in discesa per giunta! La carburazione era sballata.
Al confine rumeno presero nota di tutto ciò che portavamo addosso e nel furgone. Fummo avvisati dell’obbligo di ripresentare all’uscita gli stessi beni. Avevamo preparato una lista degli strumenti musicali in cui spiccava la voce “Eco” (un effetto voce). Il doganiere domandò cos’era l’Eco e, insoddisfatto delle nostre spiegazioni, chiese di scaricare tutto per scoprirlo da solo! Ci rifiutammo con grande determinazione… in fondo era un capriccio! Mi accorsi che dal finestrino si riusciva a scorgere parte del congegno sotto il resto dell’attrezzatura e fortunatamente la guardia si calmò.
La prima tappa fu Bucarest. In un lussuoso albergo, l’Ambassador, si tenne l’incontro con l’organizzazione rumena. Ad ognuno di noi era stata assegnata una suite. L’hotel era stupendo. I pavimenti erano coperti da tappeti alti due dita, eleganti scalinate comunicavano con i piani superiori… prevalevano le tinte rosse nei tendaggi e nei rivestimenti.
Vennero a prenderci e cominciò il tour.
Prima di partire avevo riflettuto sul fatto che avrei visitato paesi comunisti, ma non credevo di poter trovare una situazione tanto brutta. Fuori dall’albergo c’era la desolazione… bambini con brufoli in faccia e visi tristi. L’impressione che ne ricavai fu piuttosto negativa.
Ci fu qualche contatto con le ragazze del posto, belle ragazze, in ordine, curate… per gli artisti è sempre stato facile trovare donne… ma passava tutto in fretta, perché si capiva che non provavano una reale attrazione verso di noi: erano spinte dalla voglia di scappare via.
Per strada c’erano quattro gatti, la macchina era un lusso. Differenze abissali, anche rispetto all’Italia meridionale… non c’era paragone e io, campano di origine, al sud ci andavo! Però il Paese era molto pulito. A Bucarest c’erano i posacenere per strada, non una cicca per terra!
I carcerati erano impiegati per asfaltare le strade. Ne vidi parecchi al lavoro. Viaggiavamo tutti i giorni per toccare mete come Sibiu, Timisoara, Brasov, Craiova, Galati, Costanza e sul percorso si potevano incontrare galeotti nella classica divisa a strisce verticali, al lavoro sotto lo sguardo attento di uomini armati di mitra, in piedi, sui camion della milizia. Era luglio e faceva molto caldo. Transitammo anche da una città dove tutto sapeva di petrolio. Qualsiasi cosa si mangiasse sapeva di petrolio. Odore di petrolio dappertutto.
Tra i nostri facchini (rumeni che montavano e smontavano l’impianto ad ogni concerto) c’era un operaio specializzato. Viveva in un monolocale con cucina in condivisione. Guadagnava due lire nonostante la qualifica e, per arrotondare, durante le ferie venne con noi a sgobbare. Ci portò a casa sua. L’appartamento era composto da un corridoio che sbucava in una cucina e da due stanze, l’una posta a destra e l’altra a sinistra dello spazio comune: i locali erano abitati complessivamente da due famiglie. Era come vivere in una pensione. Però era tutto praticamente gratis, la casa non costava niente.
continua...
Nel 1969 fummo ingaggiati da un dipartimento del PC Rumeno che organizzava spettacoli in piccoli stadi chiamati “gradina de vara”. Partimmo per la Romania con uno spazioso furgone Fiat 238. Eravamo in sei. La qualità della benzina costituì un problema per tutta la durata del viaggio. Passata la frontiera con la Jugoslavia ed effettuato il primo rifornimento di carburante notammo, infatti, che il motore “picchiava in testa”: gli ottani erano diversi. Ma non restammo mai a piedi. Invece che a 130 viaggiavamo a soli 90 km l’ora, in discesa per giunta! La carburazione era sballata.
Al confine rumeno presero nota di tutto ciò che portavamo addosso e nel furgone. Fummo avvisati dell’obbligo di ripresentare all’uscita gli stessi beni. Avevamo preparato una lista degli strumenti musicali in cui spiccava la voce “Eco” (un effetto voce). Il doganiere domandò cos’era l’Eco e, insoddisfatto delle nostre spiegazioni, chiese di scaricare tutto per scoprirlo da solo! Ci rifiutammo con grande determinazione… in fondo era un capriccio! Mi accorsi che dal finestrino si riusciva a scorgere parte del congegno sotto il resto dell’attrezzatura e fortunatamente la guardia si calmò.
La prima tappa fu Bucarest. In un lussuoso albergo, l’Ambassador, si tenne l’incontro con l’organizzazione rumena. Ad ognuno di noi era stata assegnata una suite. L’hotel era stupendo. I pavimenti erano coperti da tappeti alti due dita, eleganti scalinate comunicavano con i piani superiori… prevalevano le tinte rosse nei tendaggi e nei rivestimenti.
Vennero a prenderci e cominciò il tour.
Prima di partire avevo riflettuto sul fatto che avrei visitato paesi comunisti, ma non credevo di poter trovare una situazione tanto brutta. Fuori dall’albergo c’era la desolazione… bambini con brufoli in faccia e visi tristi. L’impressione che ne ricavai fu piuttosto negativa.
Ci fu qualche contatto con le ragazze del posto, belle ragazze, in ordine, curate… per gli artisti è sempre stato facile trovare donne… ma passava tutto in fretta, perché si capiva che non provavano una reale attrazione verso di noi: erano spinte dalla voglia di scappare via.
Per strada c’erano quattro gatti, la macchina era un lusso. Differenze abissali, anche rispetto all’Italia meridionale… non c’era paragone e io, campano di origine, al sud ci andavo! Però il Paese era molto pulito. A Bucarest c’erano i posacenere per strada, non una cicca per terra!
I carcerati erano impiegati per asfaltare le strade. Ne vidi parecchi al lavoro. Viaggiavamo tutti i giorni per toccare mete come Sibiu, Timisoara, Brasov, Craiova, Galati, Costanza e sul percorso si potevano incontrare galeotti nella classica divisa a strisce verticali, al lavoro sotto lo sguardo attento di uomini armati di mitra, in piedi, sui camion della milizia. Era luglio e faceva molto caldo. Transitammo anche da una città dove tutto sapeva di petrolio. Qualsiasi cosa si mangiasse sapeva di petrolio. Odore di petrolio dappertutto.
Tra i nostri facchini (rumeni che montavano e smontavano l’impianto ad ogni concerto) c’era un operaio specializzato. Viveva in un monolocale con cucina in condivisione. Guadagnava due lire nonostante la qualifica e, per arrotondare, durante le ferie venne con noi a sgobbare. Ci portò a casa sua. L’appartamento era composto da un corridoio che sbucava in una cucina e da due stanze, l’una posta a destra e l’altra a sinistra dello spazio comune: i locali erano abitati complessivamente da due famiglie. Era come vivere in una pensione. Però era tutto praticamente gratis, la casa non costava niente.
continua...
lunedì 11 maggio 2009
16° puntata - Manolo - parte 3/3
I dolci erano buonissimi, spettacolari, eccezionali le pasticcerie, che sfornavano torte favolose, al cioccolato, alla frutta, ottime! Non mancavano le pietanze, le carni, spezzatini pesanti, ma ben fatti. Poi, sui treni, i grandi wurstel, di fegato, bianchi, i bratwurste, i wurstel da spalmare, i crauti, i rollmops (alici marinate che avvolgono dei cetrioli in salamoia), insalata di patate, gulasch. Non avevano i “primi”. Ci furono grandi bevute di birra. A Radeberg sorgeva un immenso stabilimento in cui producevano la “Radeberger”, una birra chiara. Bottiglie di vino? Potevano esserci. Pochissimi i liquori! Come superalcolico spesso si serviva vodka oppure quei liquori dolci, tipo sherry, “Amaretto di Saronno”. Andavano fuori di testa per l’Amaretto di Saronno! Avevamo portato della pasta, ma la materia prima non la sapevano trattare. La prima serata fu memorabile. Mio zio, affettuosissimo, mi fece prendere una sbronza di birra e vodka che vomitai la notte stessa.
Loro erano contentissimi di averci lì.
Girovagare era piacevole. Spostandosi in macchina si potevano apprezzare le particolarità del luogo, della campagna, con le sue piccole fattorie e le accoglienti trattorie: ci si fermava, si entrava e ti portavano il wurstel con i crauti, le patate, piatti curati, la birra.
Una delle discriminanti del vivere nella DDR risiedeva nella circostanza di abitare o non abitare a Berlino. Vidi anche lo squallore, case fatiscenti tipo Baggio o Selinunte (quartieri popolari milanesi, ndb). In quei casi provai senza dubbio una sensazione di abbandono.
Era evidente che nessuno avrebbe dato un marco per la salvezza della DDR. All’inizio ero su toni del tipo “ma guardate, l’occidente non va…”. Però, pensando di dover vivere lì… non stiamo parlando mica del Vietnam, ma lì era un problema… non si usciva mai per andare in un luogo di ritrovo…
Soprattutto mancava la possibilità – che per un giovane è vitale - di poter uscire dai confini e andare per il mondo a vedere il più possibile: un giovane deve avere questa spinta.
Quello che mancava completamente era la dimensione frizzantina della lotta di classe, che trovai invece in Russia, nel 1993, quando capii che anche l’ultimo degli stronzi con cui mi mettevo a discutere riusciva a tenermi testa nel discorso. In ogni dibattito i russi lasciavano intendere: non pensare di poter parlare con me di politica facendo troppa ideologia! Erano capaci di affrontare le questioni in maniera lineare, diretta. E questo lo riscontrai a tutti i livelli. C’erano molte persone in grado di contestare profondamente l’Unione Sovietica, piuttosto che la CSI di allora, usando la dialettica. Nella DDR queste persone non esistevano. In Russia i retaggi della rivoluzione del 1917 erano concreti e furono poi evidenziati dalle cronache dei gravi scontri per il malcontento dovuto ai cambiamenti sopravvenuti nei primi anni ’90.
Questi ricordi rimarcano la sostanziale differenza esistente tra un paese dove il proletariato inizia autonomamente la rivoluzione, compiendola, e un altro paese dove la rivoluzione (“imboccata”) si realizza soltanto perché predeterminata da ragioni di spartizione legate alla politica internazionale.
Loro erano contentissimi di averci lì.
Girovagare era piacevole. Spostandosi in macchina si potevano apprezzare le particolarità del luogo, della campagna, con le sue piccole fattorie e le accoglienti trattorie: ci si fermava, si entrava e ti portavano il wurstel con i crauti, le patate, piatti curati, la birra.
Una delle discriminanti del vivere nella DDR risiedeva nella circostanza di abitare o non abitare a Berlino. Vidi anche lo squallore, case fatiscenti tipo Baggio o Selinunte (quartieri popolari milanesi, ndb). In quei casi provai senza dubbio una sensazione di abbandono.
Era evidente che nessuno avrebbe dato un marco per la salvezza della DDR. All’inizio ero su toni del tipo “ma guardate, l’occidente non va…”. Però, pensando di dover vivere lì… non stiamo parlando mica del Vietnam, ma lì era un problema… non si usciva mai per andare in un luogo di ritrovo…
Soprattutto mancava la possibilità – che per un giovane è vitale - di poter uscire dai confini e andare per il mondo a vedere il più possibile: un giovane deve avere questa spinta.
Quello che mancava completamente era la dimensione frizzantina della lotta di classe, che trovai invece in Russia, nel 1993, quando capii che anche l’ultimo degli stronzi con cui mi mettevo a discutere riusciva a tenermi testa nel discorso. In ogni dibattito i russi lasciavano intendere: non pensare di poter parlare con me di politica facendo troppa ideologia! Erano capaci di affrontare le questioni in maniera lineare, diretta. E questo lo riscontrai a tutti i livelli. C’erano molte persone in grado di contestare profondamente l’Unione Sovietica, piuttosto che la CSI di allora, usando la dialettica. Nella DDR queste persone non esistevano. In Russia i retaggi della rivoluzione del 1917 erano concreti e furono poi evidenziati dalle cronache dei gravi scontri per il malcontento dovuto ai cambiamenti sopravvenuti nei primi anni ’90.
Questi ricordi rimarcano la sostanziale differenza esistente tra un paese dove il proletariato inizia autonomamente la rivoluzione, compiendola, e un altro paese dove la rivoluzione (“imboccata”) si realizza soltanto perché predeterminata da ragioni di spartizione legate alla politica internazionale.
giovedì 7 maggio 2009
15° puntata - Manolo - parte 2/3
Berlino era bellissima, una delle più belle città che avessi mai visitato… del resto, lo era anche Dresda. Berlino era una città molto particolare. C’era ancora il Muro. Passando ad Ovest, superato il Muro, ci si imbatteva in una realtà completamente diversa, nel bene e nel male. Della parte orientale apprezzai il carattere monumentale, i grandi palazzi, l’ordine, le strade, i ristoranti elegantissimi dove si poteva mangiare spendendo appena quattro marchi e mezzo, seduti al tavolino, con i camerieri in smoking che servivano. Erano posti alla portata di tutti i portafogli. Avevano una metropolitana efficientissima. Un giorno la presi senza biglietto, ma fui pizzicato da un sorpresissimo controllore. Probabilmente quella era una delle prime volte che gli capitava un fatto simile. Resosi conto della situazione, mantenendo la calma e guardandosi attorno come per accertarsi che nessuno ci stesse osservando, insistette nel chiedermi di mostrare il biglietto. Io feci scena muta. Dissimulando un certo imbarazzo, di colpo si allontanò. Provai pena per lui. Mi domandai: “Ma perché cazzo non l’ho comprato il biglietto?”.
Era una città davvero bella, soprattutto per i contrasti… perché magari dopo si andava all’Ovest e ci si trovava in un altro centro amministrativo, una classica città occidentale con gli artisti di strada che suonavano, il tossicodipendente svenuto, i poliziotti che fermavano il ladruncolo. Queste cose si vedevano all’Ovest. All’Est era tutto ordinato, “freddo”, ma bello.
Tornato a Dresda, decisi di comprare dei pantaloncini. Era agosto, faceva un caldo della madonna… un paio di pantaloncini costava… che so… 100 lire. Entrai in un negozio di abbigliamento molto spazioso, rischiarato da un’ampia vetrina dedicata interamente ad un manichino mezzo rinsecchito, con tanto di parrucca che… quasi cadeva per terra, e a quattro paia di pantaloncini buttati lì. Indicai alla commessa il capo che mi interessava. Lei, annoiata e scortese, me lo porse per la prova. Calzavano bene, ma le chiesi comunque se era possibile provarne un secondo paio. Quasi le cascarono le braccia! Quello che intendeva farmi capire era: hai bisogno di un paio di pantaloncini? prenditeli e vai! perché devi stare qui a cincischiare?
Acquistai “quel” paio di pantaloncini e me ne andai.
Ha ragione chi sostiene che, se non c’è la logica della proprietà privata, gli individui sono poco incentivati? No, io non lo credo. Anche in quel caso il problema risiedeva altrove. La società era ormai priva di stimoli. Era come se il Paese fosse stato anestetizzato. Noi, per ragioni che derivano dalla nostra storia, la storia del PCI e del movimento comunista, siamo ancora in una fase che, se si parla male di quell’esperienza, è come se si stesse parlando bene dell’occidente. Bisogna liberarsi di questo approccio tutto ideologico alla questione!
continua...
Era una città davvero bella, soprattutto per i contrasti… perché magari dopo si andava all’Ovest e ci si trovava in un altro centro amministrativo, una classica città occidentale con gli artisti di strada che suonavano, il tossicodipendente svenuto, i poliziotti che fermavano il ladruncolo. Queste cose si vedevano all’Ovest. All’Est era tutto ordinato, “freddo”, ma bello.
Tornato a Dresda, decisi di comprare dei pantaloncini. Era agosto, faceva un caldo della madonna… un paio di pantaloncini costava… che so… 100 lire. Entrai in un negozio di abbigliamento molto spazioso, rischiarato da un’ampia vetrina dedicata interamente ad un manichino mezzo rinsecchito, con tanto di parrucca che… quasi cadeva per terra, e a quattro paia di pantaloncini buttati lì. Indicai alla commessa il capo che mi interessava. Lei, annoiata e scortese, me lo porse per la prova. Calzavano bene, ma le chiesi comunque se era possibile provarne un secondo paio. Quasi le cascarono le braccia! Quello che intendeva farmi capire era: hai bisogno di un paio di pantaloncini? prenditeli e vai! perché devi stare qui a cincischiare?
Acquistai “quel” paio di pantaloncini e me ne andai.
Ha ragione chi sostiene che, se non c’è la logica della proprietà privata, gli individui sono poco incentivati? No, io non lo credo. Anche in quel caso il problema risiedeva altrove. La società era ormai priva di stimoli. Era come se il Paese fosse stato anestetizzato. Noi, per ragioni che derivano dalla nostra storia, la storia del PCI e del movimento comunista, siamo ancora in una fase che, se si parla male di quell’esperienza, è come se si stesse parlando bene dell’occidente. Bisogna liberarsi di questo approccio tutto ideologico alla questione!
continua...
lunedì 4 maggio 2009
14° puntata - Manolo - parte 1/3
Manolo visitò la Germania Democratica per la prima volta nel 1989 in compagnia della madre, originaria di Dresda. “… Sia pur con le aperture che si notavano nel quotidiano, il clima, la cultura, la socialità, lo stesso stile di vita erano profondamente diversi da quelli che avevo conosciuto durante i miei diciotto anni di vita in Italia. Finalmente potevo mettere il naso in un vero paese dell’Est”. Sino ad allora ne aveva soltanto sentito parlare.
Nella DDR avevo due zii, entrambi fratelli di mia madre. Uno viveva a Radeberg (cittadina di circa 15000 abitanti a pochi minuti da Dresda), l’altro a Berlino. Il primo era un operaio, un tecnico, che conduceva una vita dignitosa in una casa con mobili che, in molti casi, si era costruito da solo. Era capace di lavorare il legno. La casa era molto accogliente, vi erano persino angoli riservati alla discussione. La sua era una famiglia normale, come la sua vita, una vita routinaria. Era rimasto molto umano. Fummo suoi ospiti per un paio di settimane, assaporando il gusto della vera DDR. Dopo un lunghissimo viaggio, con svariate coincidenze, eravamo finalmente riusciti a raggiungere Dresda e lui venne a prenderci alla stazione a bordo della classica Trabant. L’altro zio era un personaggio più spigoloso. Funzionario della SED, a tutti gli effetti uomo di partito, rigido, chiuso, con moglie e figlio, era molto meno espansivo del fratello. Viveva in un piccolo, ordinatissimo e asettico appartamento nei palazzoni della periferia di Berlino. Anche la stanza del bambino era “fredda”! Ciò che li accomunava era una radicata disillusione accompagnata da evidente noia di fondo. Col primo si passavano belle serate intorno al tavolo e l’alcol scorreva abbondantemente. Era un fortissimo bevitore di birra che amava mangiare e stare a tavola. Lì finiva la serata, anche perché non c’era la possibilità di andare per locali. Non c’erano bar e, se c’erano, erano posti di una tristezza assoluta, arredati squallidamente. I locali erano luoghi vuoti dove si entrava a bere una birra e a fumare una sigaretta. Non c’erano giovani. Si viveva molto la dimensione della casa.
Il primo fratello era più disponibile a parlare con noi di politica. Io chiedevo, criticavo, contestavo, ma lui era completamente disilluso dalla storia e dalla politica della DDR. Il secondo lo era ancora di più. La militanza nel Partito invadeva la sua dimensione personale. Pur essendo funzionario, era assolutamente disilluso dalla situazione che stava vivendo. Non lo dava a vedere, non ne parlava con piacere e si limitava, anche con mia madre, ad un rapporto di forma, quindi poco propenso ad approfondire. Una pesante noia caratterizzava i giorni di entrambi gli zii.
A Radeberg avevo una cugina poco più giovane di me e altri due cuginetti dell’età di mio fratello. Avevano 14 anni. Con loro si stava bene. Gli spazi per divertirsi esistevano. Si giocava a pallone, si andava a fare il bagno in una mega-piscina, di fatto gratuita, molto ben attrezzata, dove si poteva praticare la pallanuoto con due porte “serie”, da vero campo di pallanuoto, e con trampolini per tuffarsi. C’era un candore in quei ragazzini che… non si poteva trovare nei nostri coetanei italiani. Erano abituati a vivere con maggiore gradualità le fasi della crescita, erano ancora capaci di timidezze che noi non dimostravamo più perché mascherate da atteggiamenti precostituiti, preconfezionati, come ci insegnava la televisione. La televisione della DDR era inguardabile, altrettanto inguardabile quanto la nostra, ma per altre ragioni. Non ero incentivato a sedermi davanti alla tv per vedere Bonanza o un film russo degli anni ‘20 con sottotitoli in bulgaro.
Loro erano poco curiosi nei nostri riguardi. Erano stimolati dalla nostra presenza, ma non chiedevano mai troppo della nostra vita. Eravamo noi i più curiosi. Noi eravamo dei ragazzini particolari… un ragazzino comune si sarebbe messo a piangere nel rendersi conto che lì non avrebbe trovato nulla di ciò a cui era abituato... niente cinema, niente amici o giostre, niente Macdonald’s. Io e mio fratello, invece, ci divertivamo come pazzi. Non ci facevano domande, sembravano abbastanza apatici da questo punto di vista. Devo ammettere che davano l’impressione di essere un po’ tristi.
Quell’esperienza era giunta al capolinea. La sua fine ha liberato forze sociali, nonostante gli odierni criteri di valutazione della qualità della vita evidenzino scarsi miglioramenti… ora c’è la prostituzione, che all’epoca era nascosta, c’è la droga, strumento di controllo dei poveri, che prima era solo per ricchi e funzionari di partito. I risultati si vedranno più avanti.
Qual è il dato? Il loro socialismo non aveva lasciato nulla nel tessuto proletario: quarant’anni non furono sufficienti per costruire un’adeguata coscienza di massa rispetto a quello che capitava nel Paese!
continua...
Nella DDR avevo due zii, entrambi fratelli di mia madre. Uno viveva a Radeberg (cittadina di circa 15000 abitanti a pochi minuti da Dresda), l’altro a Berlino. Il primo era un operaio, un tecnico, che conduceva una vita dignitosa in una casa con mobili che, in molti casi, si era costruito da solo. Era capace di lavorare il legno. La casa era molto accogliente, vi erano persino angoli riservati alla discussione. La sua era una famiglia normale, come la sua vita, una vita routinaria. Era rimasto molto umano. Fummo suoi ospiti per un paio di settimane, assaporando il gusto della vera DDR. Dopo un lunghissimo viaggio, con svariate coincidenze, eravamo finalmente riusciti a raggiungere Dresda e lui venne a prenderci alla stazione a bordo della classica Trabant. L’altro zio era un personaggio più spigoloso. Funzionario della SED, a tutti gli effetti uomo di partito, rigido, chiuso, con moglie e figlio, era molto meno espansivo del fratello. Viveva in un piccolo, ordinatissimo e asettico appartamento nei palazzoni della periferia di Berlino. Anche la stanza del bambino era “fredda”! Ciò che li accomunava era una radicata disillusione accompagnata da evidente noia di fondo. Col primo si passavano belle serate intorno al tavolo e l’alcol scorreva abbondantemente. Era un fortissimo bevitore di birra che amava mangiare e stare a tavola. Lì finiva la serata, anche perché non c’era la possibilità di andare per locali. Non c’erano bar e, se c’erano, erano posti di una tristezza assoluta, arredati squallidamente. I locali erano luoghi vuoti dove si entrava a bere una birra e a fumare una sigaretta. Non c’erano giovani. Si viveva molto la dimensione della casa.
Il primo fratello era più disponibile a parlare con noi di politica. Io chiedevo, criticavo, contestavo, ma lui era completamente disilluso dalla storia e dalla politica della DDR. Il secondo lo era ancora di più. La militanza nel Partito invadeva la sua dimensione personale. Pur essendo funzionario, era assolutamente disilluso dalla situazione che stava vivendo. Non lo dava a vedere, non ne parlava con piacere e si limitava, anche con mia madre, ad un rapporto di forma, quindi poco propenso ad approfondire. Una pesante noia caratterizzava i giorni di entrambi gli zii.
A Radeberg avevo una cugina poco più giovane di me e altri due cuginetti dell’età di mio fratello. Avevano 14 anni. Con loro si stava bene. Gli spazi per divertirsi esistevano. Si giocava a pallone, si andava a fare il bagno in una mega-piscina, di fatto gratuita, molto ben attrezzata, dove si poteva praticare la pallanuoto con due porte “serie”, da vero campo di pallanuoto, e con trampolini per tuffarsi. C’era un candore in quei ragazzini che… non si poteva trovare nei nostri coetanei italiani. Erano abituati a vivere con maggiore gradualità le fasi della crescita, erano ancora capaci di timidezze che noi non dimostravamo più perché mascherate da atteggiamenti precostituiti, preconfezionati, come ci insegnava la televisione. La televisione della DDR era inguardabile, altrettanto inguardabile quanto la nostra, ma per altre ragioni. Non ero incentivato a sedermi davanti alla tv per vedere Bonanza o un film russo degli anni ‘20 con sottotitoli in bulgaro.
Loro erano poco curiosi nei nostri riguardi. Erano stimolati dalla nostra presenza, ma non chiedevano mai troppo della nostra vita. Eravamo noi i più curiosi. Noi eravamo dei ragazzini particolari… un ragazzino comune si sarebbe messo a piangere nel rendersi conto che lì non avrebbe trovato nulla di ciò a cui era abituato... niente cinema, niente amici o giostre, niente Macdonald’s. Io e mio fratello, invece, ci divertivamo come pazzi. Non ci facevano domande, sembravano abbastanza apatici da questo punto di vista. Devo ammettere che davano l’impressione di essere un po’ tristi.
Quell’esperienza era giunta al capolinea. La sua fine ha liberato forze sociali, nonostante gli odierni criteri di valutazione della qualità della vita evidenzino scarsi miglioramenti… ora c’è la prostituzione, che all’epoca era nascosta, c’è la droga, strumento di controllo dei poveri, che prima era solo per ricchi e funzionari di partito. I risultati si vedranno più avanti.
Qual è il dato? Il loro socialismo non aveva lasciato nulla nel tessuto proletario: quarant’anni non furono sufficienti per costruire un’adeguata coscienza di massa rispetto a quello che capitava nel Paese!
continua...
giovedì 30 aprile 2009
13° puntata - Gianni - parte 4/4
Deviammo per Praga. La macchina era piena di fango, sembrava un’auto da rally. Soggiornammo per una settimana intera in un albergo del centro. Non si poteva parcheggiare liberamente, ma studiai un escamotage. Considerato che avevamo prenotato tramite l’Associazione degli Alberghi Cecoslovacchi, lasciammo il volantino dell’associazione e il depliant dell’hotel in bella mostra sul cruscotto. Tutti i vigili che passavano per fare la multa alla fine notavano i depliant e desistevano. Il nostro era l’unico hotel di quella via a non disporre di un parcheggio per i clienti. La macchina restò ferma una settimana. Utilizzavamo i mezzi pubblici. Non dimenticherò facilmente i videoclip di musica cubana proiettati nei mezzanini del metro. Praga si rivelò molto più tranquilla di Budapest. La parte nuova, però, era orribile. Come “vita” era meglio Budapest, che aveva locali jazz, locali rock. In giro per Budapest potevi sentire musica degli Iron Maiden! In Cecoslovacchia si percepiva un maggiore senso di oppressione, la gente era più triste.
In tangenziale i poliziotti ci fermarono più volte, continuavano a rompere, con fare cattivo. Rendendosi conto che tutto era in ordine, diventavano cordiali. Fummo obbligati a portare la macchina ad un’officina. La Fiat si trovava dall’altra parte della città. Un signore ci consigliò di rivolgerci alla più vicina Renault. Ci accompagnò e ci fece persino saltare la fila. Sistemarono la macchina e non volevano soldi. Io regalai mille corone al meccanico che l’aveva aggiustata. L’officina aveva macchine occidentali, belle, come la Golf e altre che in giro non si vedevano.
Ci furono diverse scampagnate e visite, come quella alla fabbrica Skoda - vista solo dall’esterno - e agli impianti della birra Pilsner a Plzen, che in verità ci delusero: capannoni brutti, messi male, niente da rilevare. Plzen sembrava una città tedesca, con i numerosi tram, i viali lunghi e deserti, senza nessuno in giro. Karlovy Vary, città termale, era bellissima. Dormimmo in camere singole, con la radio. Particolare che ci fu fatto notare al check-in. Peccato che le trasmissioni fossero in lingua cecoslovacca! Non passavano neanche un po’ di musica. Le prostitute in hotel erano tante e ci fu anche un piccolo scandalo. Protagonisti alcuni mediorientali con due ragazze cecoslovacche. Alla fine della serata i mediorientali non volevano andare con le ragazze e loro piangevano perché non potevano concludere. Le avevano rifiutate e a loro saltava la serata. Tornammo in Italia.
L’anno dopo era il 1987: capodanno a Berlino Ovest. Attraversate le Alpi e la Baviera, prendemmo l’autostrada che portava dalla Germania Federale a Berlino Ovest . La campagna era bruttissima, sembrava un "day after", ricordava Chernobyl, spoglia... Non si potevano superare i 110 km l’ora. Ad un certo punto vidi un lampo. Pensai “vuoi vedere che ci hanno fatto la multa, che abbiamo superato il limite?” e infatti, dopo un po’ di chilometri, ci accodammo a macchine tedesche occidentali in fila, ferme per pagare la multa. Noi con loro. Quaranta marchi. Con la foto. Ripartiti, dopo venti chilometri fummo affiancati dalla 124 della polizia tedesca con l’agente che urlava in italiano dal finestrino “ueh! bel viaggio? tutto bene? perché non mettete le cinture di sicurezza?” Quaranta marchi. C’erano altane da tutte le parti, con soldati che controllavano. Da lì non si poteva fuggire. Finalmente arrivammo a Berlino Ovest e al controllo documenti. Passammo ad Est dal check-point Charlie. Imbracciavo l’ombrello a mo’ di mitra, per scherzare. Il soldato col colbacco e la stella fece il duro all’inizio, poi divenne gentile. Prese addirittura la cartina e ci indicò le cose da non perdere: le ambasciate americana e russa; l’Opera; la torre della televisione; musei vari… Le donne sembravano uscite dal set di "Star Trek", con quelle tutine anni Sessanta… La parte vecchia di Berlino era diroccata, la tenevano così apposta per far ricordare gli avvenimenti della guerra. Ad Ovest prendevamo spesso il metrò che faceva il passaggio sotterraneo ad Est. I mezzanini di questa linea erano chiusi da reti di ferro, erano fermate non arredate, e si vedevano i poliziotti di guardia. Solo ad una stazione era permesso scendere per entrare in DDR, ma ovviamente c’era il controllo documenti. I locali sparavano musica cubana a tutto spiano. Ci capitò di girare insieme ad altri italiani, in tutto eravamo forse una decina. In un bar ordinammo dei dolci e, nell'accomodarci, unimmo i tavoli. Niente di strano. Fummo sgridati da un furioso cameriere: “Non si può! (Assembramento!) Mettetevi dove ci sono tavoli liberi!”
La gente, in generale, era molto cordiale. Un signore mi lasciò curiosare nella sua Trabant, mentre l’aggiustava.
Ci concedemmo il piacere di un pasto all’Opera, allietati da un chitarrista, con del buon cibo che costava pochissimo. Bellissimo!
In tangenziale i poliziotti ci fermarono più volte, continuavano a rompere, con fare cattivo. Rendendosi conto che tutto era in ordine, diventavano cordiali. Fummo obbligati a portare la macchina ad un’officina. La Fiat si trovava dall’altra parte della città. Un signore ci consigliò di rivolgerci alla più vicina Renault. Ci accompagnò e ci fece persino saltare la fila. Sistemarono la macchina e non volevano soldi. Io regalai mille corone al meccanico che l’aveva aggiustata. L’officina aveva macchine occidentali, belle, come la Golf e altre che in giro non si vedevano.
Ci furono diverse scampagnate e visite, come quella alla fabbrica Skoda - vista solo dall’esterno - e agli impianti della birra Pilsner a Plzen, che in verità ci delusero: capannoni brutti, messi male, niente da rilevare. Plzen sembrava una città tedesca, con i numerosi tram, i viali lunghi e deserti, senza nessuno in giro. Karlovy Vary, città termale, era bellissima. Dormimmo in camere singole, con la radio. Particolare che ci fu fatto notare al check-in. Peccato che le trasmissioni fossero in lingua cecoslovacca! Non passavano neanche un po’ di musica. Le prostitute in hotel erano tante e ci fu anche un piccolo scandalo. Protagonisti alcuni mediorientali con due ragazze cecoslovacche. Alla fine della serata i mediorientali non volevano andare con le ragazze e loro piangevano perché non potevano concludere. Le avevano rifiutate e a loro saltava la serata. Tornammo in Italia.
L’anno dopo era il 1987: capodanno a Berlino Ovest. Attraversate le Alpi e la Baviera, prendemmo l’autostrada che portava dalla Germania Federale a Berlino Ovest . La campagna era bruttissima, sembrava un "day after", ricordava Chernobyl, spoglia... Non si potevano superare i 110 km l’ora. Ad un certo punto vidi un lampo. Pensai “vuoi vedere che ci hanno fatto la multa, che abbiamo superato il limite?” e infatti, dopo un po’ di chilometri, ci accodammo a macchine tedesche occidentali in fila, ferme per pagare la multa. Noi con loro. Quaranta marchi. Con la foto. Ripartiti, dopo venti chilometri fummo affiancati dalla 124 della polizia tedesca con l’agente che urlava in italiano dal finestrino “ueh! bel viaggio? tutto bene? perché non mettete le cinture di sicurezza?” Quaranta marchi. C’erano altane da tutte le parti, con soldati che controllavano. Da lì non si poteva fuggire. Finalmente arrivammo a Berlino Ovest e al controllo documenti. Passammo ad Est dal check-point Charlie. Imbracciavo l’ombrello a mo’ di mitra, per scherzare. Il soldato col colbacco e la stella fece il duro all’inizio, poi divenne gentile. Prese addirittura la cartina e ci indicò le cose da non perdere: le ambasciate americana e russa; l’Opera; la torre della televisione; musei vari… Le donne sembravano uscite dal set di "Star Trek", con quelle tutine anni Sessanta… La parte vecchia di Berlino era diroccata, la tenevano così apposta per far ricordare gli avvenimenti della guerra. Ad Ovest prendevamo spesso il metrò che faceva il passaggio sotterraneo ad Est. I mezzanini di questa linea erano chiusi da reti di ferro, erano fermate non arredate, e si vedevano i poliziotti di guardia. Solo ad una stazione era permesso scendere per entrare in DDR, ma ovviamente c’era il controllo documenti. I locali sparavano musica cubana a tutto spiano. Ci capitò di girare insieme ad altri italiani, in tutto eravamo forse una decina. In un bar ordinammo dei dolci e, nell'accomodarci, unimmo i tavoli. Niente di strano. Fummo sgridati da un furioso cameriere: “Non si può! (Assembramento!) Mettetevi dove ci sono tavoli liberi!”
La gente, in generale, era molto cordiale. Un signore mi lasciò curiosare nella sua Trabant, mentre l’aggiustava.
Ci concedemmo il piacere di un pasto all’Opera, allietati da un chitarrista, con del buon cibo che costava pochissimo. Bellissimo!
lunedì 27 aprile 2009
12° puntata - Gianni - parte 3/4
Lasciammo Budapest alla volta della Cecoslovacchia. L’autostrada era brutta, gibbosa, chilometri di gibbosità a pagamento. Alla frontiera venne a controllarci una poliziotta. Io indossavo un cappellino vietkong e lei lo voleva per sé: “Tu fai un bel regalo a noi cecoslovacchi”. Io le dissi che non facevo un bel regalo di niente. Purtroppo scoprirono il walkman nascosto sotto il sedile. Misero gli specchi sotto la macchina per l’ispezione, ma alla fine la vinsi io, senza perdite. Una volta entrati in Cecoslovacchia notammo che il paesaggio mutava. Diventava duro, più nordico, meno mediterraneo. L’Ungheria, alle nostre spalle, aveva molto del mediterraneo. Fummo subito colpiti da una serie di immagini di forte impatto: prima un bellissimo campo da calcio solcato da due squadre di ragazzini con le maglie rosse, belle, poi l’entrata in scena della simbologia comunista: falce e martello. Non si trovava “benzina privata”. Inoltre, in teoria, non era permesso soggiornare in appartamento.
A Bratislava erano continui i controlli per l’alcol. I poliziotti aspettavano regolarmente che, uscito dal bar, accendessi il motore per venire a rompere. Bevevo molta coca-cola perché guidavo io. Cambiammo soldi in nero dal facchino. Uscendo incontrammo una ragazza molto bella che ci si rivolse in italiano “Ciao milanese! Tutto bene? Senti, vuoi andare in città, io ti porto in giro”. Ci portò a vedere la casa di Havel e un sacco di altre cose. Poi l’accompagnammo a casa. Accese la tv sul canale austriaco. L’appartamento era bellissimo, molto simile a quelli occidentali. Noi eravamo un po’ insospettiti. Poteva essere una confidente della polizia alla ricerca di informazioni. Ci disse che, per la sera stessa, avrebbe preparato una torta e ci invitò a tornare. Nel frattempo arrivò una sua amica bionda che conosceva qualche parola di inglese. La prima ci spinse ad uscire con questa ragazza. Anche lei era molto bella. Dopo un ulteriore giro in città, la bionda ci riaccompagnò in hotel. Fissammo un appuntamento per poi raggiungere la ragazza della torta. All’ora stabilita scendemmo nella hall e lei intanto si era comprata le Marlboro, con la scusa che stava con noi. Le domandammo dell’amica, che non arrivava. Arrivò invece un’altra sua amica, poi un’altra ancora e alla fine ci dissero che la prima non sarebbe arrivata più. Proposero allora di andare a ballare. In macchina si lamentavano perché non avevamo lo stereo: “Italiano senza radio!”. Guidai fino alla discoteca di un grande albergo. Presto si formò al nostro tavolo una grande adunata. Ci presentarono cugini, nipoti… Il cameriere mi chiese se doveva segnare ogni volta che mi portava da bere, e io gli dissi di segnare pure, così ogni volta lui metteva un trattino. Vidi però che prendevano da bere anche gli altri e lui segnava, segnava, segnava, segnava... Ad un certo punto il mio amico, che era tirchio, mi confidò un sospetto: “Gianni, ma questo mi sa che dobbiamo pagarlo tutto noi, questi non tirano fuori una lira!”. Per noi c’erano prezzi occidentali! Mi misi d’accordo col mio amico per riuscire a pagare solo le nostre consumazioni. Poi feci finta di andare a fare un giro. Gli ospiti erano tranquilli, allegri, distratti. Raggiunsi il bancone e chiesi di pagare la birra del mio amico, la coca che avevo bevuto e le rose. “E il resto?” mi chiesero. “Loro!” sentenziai. Il barista non mi credeva: “Come, loro?” e io ribadii “Loro!”. Avevo una gran paura, fuori poteva fermarci la polizia e far storie perché non avevamo pagato. Ma il mio amico mi tranquillizzò dicendomi che non sarebbe capitato nulla. Pagai il mio conto, lui si risedette e mi fece cenno di andare verso il bagno, che era vicino alla scaletta per uscire. Come d’accordo, uscii e… fregatura! Arrivò la polizia a farmi l’esame del tasso alcolemico: mentre soffiavo, sentii arrivare il mio amico. Ce l’aveva fatta! Gli dissi che sarebbe successo un casino con la polizia che ci bloccava e quelli che prima o poi sarebbero usciti dal locale a cercarci. E invece finii l’esame appena in tempo. Partii e vidi uscire la tipa bionda dalla discoteca che gridava “Gianni! Gianni!” Il mio amico si affacciò dal finestrino e le urlò “Italiani sì, ma coglioni no!”. Ero preoccupatissimo, quella notte ebbi paura per la macchina... Il giorno dopo cambiammo albergo, per evitare sorprese. Passò un altro giorno a Bratislava tra un salto in birreria, un sacco di propaganda socialista, un incidente tra camion e tram ed un matrimonio in chiesa.
Di nuovo in macchina, ci dirigemmo ad una località di villeggiatura in montagna, al confine con la Polonia, Starý Smokovec. Tentammo senza troppa convinzione di passare la frontiera, ma non fummo abbastanza fortunati. L’offerta per il pernottamento era di soli cottage-monolocali e c’era molta gente della DDR in vacanza. Il paese era bello, tipo Cortina. Ci dedicammo alla birra e alle mangiate nei grandi posteggi per camion. Il mio amico chiedeva puntualmente il menu. Io gli chiedevo il perché, visto che non ci avrebbe capito niente e infatti non ci capiva mai niente. Avevamo però identificato e memorizzato quattro cose da ordinare. La birra annaffiava tutto. Non potevamo aprire il cofano della macchina per dare una controllata che... subito si formava un capannello di curiosi che volevano vedere il motore Fiat con gli occhi fuori dalle orbite! Provavamo a spiegare che era un’auto di merda, ma loro: “no no, buna buna!”.
continua...
A Bratislava erano continui i controlli per l’alcol. I poliziotti aspettavano regolarmente che, uscito dal bar, accendessi il motore per venire a rompere. Bevevo molta coca-cola perché guidavo io. Cambiammo soldi in nero dal facchino. Uscendo incontrammo una ragazza molto bella che ci si rivolse in italiano “Ciao milanese! Tutto bene? Senti, vuoi andare in città, io ti porto in giro”. Ci portò a vedere la casa di Havel e un sacco di altre cose. Poi l’accompagnammo a casa. Accese la tv sul canale austriaco. L’appartamento era bellissimo, molto simile a quelli occidentali. Noi eravamo un po’ insospettiti. Poteva essere una confidente della polizia alla ricerca di informazioni. Ci disse che, per la sera stessa, avrebbe preparato una torta e ci invitò a tornare. Nel frattempo arrivò una sua amica bionda che conosceva qualche parola di inglese. La prima ci spinse ad uscire con questa ragazza. Anche lei era molto bella. Dopo un ulteriore giro in città, la bionda ci riaccompagnò in hotel. Fissammo un appuntamento per poi raggiungere la ragazza della torta. All’ora stabilita scendemmo nella hall e lei intanto si era comprata le Marlboro, con la scusa che stava con noi. Le domandammo dell’amica, che non arrivava. Arrivò invece un’altra sua amica, poi un’altra ancora e alla fine ci dissero che la prima non sarebbe arrivata più. Proposero allora di andare a ballare. In macchina si lamentavano perché non avevamo lo stereo: “Italiano senza radio!”. Guidai fino alla discoteca di un grande albergo. Presto si formò al nostro tavolo una grande adunata. Ci presentarono cugini, nipoti… Il cameriere mi chiese se doveva segnare ogni volta che mi portava da bere, e io gli dissi di segnare pure, così ogni volta lui metteva un trattino. Vidi però che prendevano da bere anche gli altri e lui segnava, segnava, segnava, segnava... Ad un certo punto il mio amico, che era tirchio, mi confidò un sospetto: “Gianni, ma questo mi sa che dobbiamo pagarlo tutto noi, questi non tirano fuori una lira!”. Per noi c’erano prezzi occidentali! Mi misi d’accordo col mio amico per riuscire a pagare solo le nostre consumazioni. Poi feci finta di andare a fare un giro. Gli ospiti erano tranquilli, allegri, distratti. Raggiunsi il bancone e chiesi di pagare la birra del mio amico, la coca che avevo bevuto e le rose. “E il resto?” mi chiesero. “Loro!” sentenziai. Il barista non mi credeva: “Come, loro?” e io ribadii “Loro!”. Avevo una gran paura, fuori poteva fermarci la polizia e far storie perché non avevamo pagato. Ma il mio amico mi tranquillizzò dicendomi che non sarebbe capitato nulla. Pagai il mio conto, lui si risedette e mi fece cenno di andare verso il bagno, che era vicino alla scaletta per uscire. Come d’accordo, uscii e… fregatura! Arrivò la polizia a farmi l’esame del tasso alcolemico: mentre soffiavo, sentii arrivare il mio amico. Ce l’aveva fatta! Gli dissi che sarebbe successo un casino con la polizia che ci bloccava e quelli che prima o poi sarebbero usciti dal locale a cercarci. E invece finii l’esame appena in tempo. Partii e vidi uscire la tipa bionda dalla discoteca che gridava “Gianni! Gianni!” Il mio amico si affacciò dal finestrino e le urlò “Italiani sì, ma coglioni no!”. Ero preoccupatissimo, quella notte ebbi paura per la macchina... Il giorno dopo cambiammo albergo, per evitare sorprese. Passò un altro giorno a Bratislava tra un salto in birreria, un sacco di propaganda socialista, un incidente tra camion e tram ed un matrimonio in chiesa.
Di nuovo in macchina, ci dirigemmo ad una località di villeggiatura in montagna, al confine con la Polonia, Starý Smokovec. Tentammo senza troppa convinzione di passare la frontiera, ma non fummo abbastanza fortunati. L’offerta per il pernottamento era di soli cottage-monolocali e c’era molta gente della DDR in vacanza. Il paese era bello, tipo Cortina. Ci dedicammo alla birra e alle mangiate nei grandi posteggi per camion. Il mio amico chiedeva puntualmente il menu. Io gli chiedevo il perché, visto che non ci avrebbe capito niente e infatti non ci capiva mai niente. Avevamo però identificato e memorizzato quattro cose da ordinare. La birra annaffiava tutto. Non potevamo aprire il cofano della macchina per dare una controllata che... subito si formava un capannello di curiosi che volevano vedere il motore Fiat con gli occhi fuori dalle orbite! Provavamo a spiegare che era un’auto di merda, ma loro: “no no, buna buna!”.
continua...
domenica 26 aprile 2009
giovedì 23 aprile 2009
11° puntata - Gianni - parte 2/4
La vacanza successiva fu quella del settembre 1986. L’itinerario toccava nuovamente la Jugoslavia, poi l’Ungheria e la Cecoslovacchia. Per prima cosa ottenemmo i visti da Roma. Partimmo a bordo di una Fiat Uno senza stereo. Si ascoltava una scalcinata radio portatile. Lasciammo Milano al mattino e, giunti molto tardi a Lubiana, con tutti i benzinai chiusi, decidemmo di dormire nel parcheggio del distributore. Al mattino ci svegliò proprio il benzinaio dicendoci che dovevamo aspettare ancora perché doveva prima arrivare l’autobotte per il rifornimento. Facemmo il pieno di benzina alle otto e mezza del mattino. La strada era bellissima, non sembrava neanche di essere in Jugoslavia: bei panorami, tanta natura, ma molta gente con la faccia stanca. Al confine ungherese ci aspettavano un sacco di pratiche da sbrigare. C’erano tre o quattro sbarre da oltrepassare in circa un chilometro di strada in piena campagna. Cinque minuti d’attesa alla prima sbarra. Dopo la prima, ci fermammo altri cinque minuti alla seconda. Infine si aprì e arrivammo al confine vero e proprio. Ci venne incontro un poliziotto. “Buongiorno, benvenuti”, in italiano, “ passaporti!”. Li prese e li mise in una borsa. Non si fece vivo per un’eternità. Con noi un pullman di napoletani in attesa di uscire. I napoletani, incazzati neri, facevano casino perché i doganieri volevano fare un cambio di soldi slavi con altri soldi slavi. Gli ufficiali ci chiesero per quanto tempo avevamo intenzione di fermarci. Rispondemmo “quindici giorni!” e ci mandarono a cambiare soldi per quindici giorni. “Compra i fiorini!”. Finalmente ci restituirono i passaporti con molti timbri, le scritte della durata della permanenza e dell’entrata. Entrammo in un paese bellissimo, una campagna meravigliosa, sotto il sole, che sembrava la Lombardia degli anni Sessanta. Ammiravamo le loro macchinine. Anche in Ungheria non demmo molto nell’occhio. Avevano un socialismo libero. Guardavano la tv occidentale, facevano benzina dove volevano, avevano appartamenti privati da affittare ai turisti. Le indicazioni stradali erano incomprensibili. Gustammo del buon gulasch con paprika in una località sul Balaton, poi ci dirigemmo al capoluogo della regione del Balaton, Siofok, che sembrava Rimini. Era piena di gente di Budapest e di austriaci. Appena arrivati fummo intercettati da un livornese, sposato con una ungherese, che ci affittò casa sua dopo averci portato alla centrale di polizia per la segnalazione. A casa c’era una vecchietta che pregava di nascosto. In quel luogo facemmo un mucchio di conoscenze, ad esempio pranzando nei ristoranti privati, dove peraltro il cibo era pessimo… la cucina era mitteleuropea classica a base di wurstel, pollo fritto, patatine, cose da fast food prodotte con macchinari. Invece nei ristoranti statali… conoscevano tutti l’italiano, c’era il violinista zigano, ci trattavano bene e costavano poco, pochissimo.
Partimmo fiduciosi per Budapest, la grande delusione. Affittammo un appartamento composto da quattro locali e servizi in pieno centro, sul Danubio, ma che si sarebbe liberato soltanto il giorno successivo. Conoscemmo due livornesi che ci ospitarono per la notte, furono cortesi… visto che erano già stati registrati. Noi non ancora, quindi avevamo un po’ di paura. Alle nove del mattino seguente suonò il campanello dell’appartamento. I livornesi erano già andati via. Aprii la porta e mi trovai di fronte un gran pezzo di figliola: le chiesi che cosa voleva da noi. Lei provò a spiegare qualcosa, ma non si capiva niente. Nel dubbio, le sbattei la porta in faccia. Dopo qualche minuto suonò ancora il campanello: era il padrone. Ci spiegò che quella era la donna delle pulizie. Diventammo amici. Ci fece visitare il cortile della casa, che per la verità versava in cattivo stato, con l’erba incolta e altri chiari segni di incuria... Chiedemmo il perché di quel disordine e ci spiegò che era tutto statale e non si poteva fare granché. Il padrone ci portò a casa sua, che non era grande neanche la metà dello spazio che affittava ai turisti. Parlottammo in inglese. Credeva che la Juve fosse di Milano!
L’inquinamento era spaventoso. L’alloggio si trovava nei pressi della circonvallazione ed ogni giorno la sveglia era data all’alba dal fracasso causato dal traffico di automobili. La nostra macchina era stata parcheggiata sul marciapiede che divideva i due sensi di marcia. Trascorsi sette giorni, senza che venisse mai utilizzata, risultò interamente coperta da almeno “due dita” di polvere nera.
I quartieri nuovi di Budapest somigliavano ai milanesi Gratosoglio e Gallaratese. La città vecchia, invece, era bella. La notte andavamo nei locali frequentati dalla nomenklatura, pieni di prostitute che si distinguevano a fatica dalle ragazze “regolari”. Gente ungherese benestante vestita all’occidentale, ma piuttosto pacchiana, arrivava con i taxi. Ah… i tassisti ci imbrogliavano di continuo e noi gettavamo i soldi a terra, in segno di disprezzo. Usavamo il metrò, il tram, da capolinea a capolinea. Di musei non ne visitammo affatto, non ne avevamo voglia. I contatti con gli ungheresi furono buoni, ma l’impressione era di essere presi per il culo: gli interessava uscire a mangiare gratis, stare sulle nostre spalle.
Ci furono una escursione per andare a mangiare a Pécs e alcuni piacevoli giri in campagna. Mi colpirono delle strane colline, per metà coperte da boschi, per l’altra metà dal prato…
Nei giardini delle case la gente prendeva il sole in costume. La natura era rigogliosa. Tanti facevano l’autostop e fu bello condividere le gioie del viaggio con diverse persone.
continua...
Partimmo fiduciosi per Budapest, la grande delusione. Affittammo un appartamento composto da quattro locali e servizi in pieno centro, sul Danubio, ma che si sarebbe liberato soltanto il giorno successivo. Conoscemmo due livornesi che ci ospitarono per la notte, furono cortesi… visto che erano già stati registrati. Noi non ancora, quindi avevamo un po’ di paura. Alle nove del mattino seguente suonò il campanello dell’appartamento. I livornesi erano già andati via. Aprii la porta e mi trovai di fronte un gran pezzo di figliola: le chiesi che cosa voleva da noi. Lei provò a spiegare qualcosa, ma non si capiva niente. Nel dubbio, le sbattei la porta in faccia. Dopo qualche minuto suonò ancora il campanello: era il padrone. Ci spiegò che quella era la donna delle pulizie. Diventammo amici. Ci fece visitare il cortile della casa, che per la verità versava in cattivo stato, con l’erba incolta e altri chiari segni di incuria... Chiedemmo il perché di quel disordine e ci spiegò che era tutto statale e non si poteva fare granché. Il padrone ci portò a casa sua, che non era grande neanche la metà dello spazio che affittava ai turisti. Parlottammo in inglese. Credeva che la Juve fosse di Milano!
L’inquinamento era spaventoso. L’alloggio si trovava nei pressi della circonvallazione ed ogni giorno la sveglia era data all’alba dal fracasso causato dal traffico di automobili. La nostra macchina era stata parcheggiata sul marciapiede che divideva i due sensi di marcia. Trascorsi sette giorni, senza che venisse mai utilizzata, risultò interamente coperta da almeno “due dita” di polvere nera.
I quartieri nuovi di Budapest somigliavano ai milanesi Gratosoglio e Gallaratese. La città vecchia, invece, era bella. La notte andavamo nei locali frequentati dalla nomenklatura, pieni di prostitute che si distinguevano a fatica dalle ragazze “regolari”. Gente ungherese benestante vestita all’occidentale, ma piuttosto pacchiana, arrivava con i taxi. Ah… i tassisti ci imbrogliavano di continuo e noi gettavamo i soldi a terra, in segno di disprezzo. Usavamo il metrò, il tram, da capolinea a capolinea. Di musei non ne visitammo affatto, non ne avevamo voglia. I contatti con gli ungheresi furono buoni, ma l’impressione era di essere presi per il culo: gli interessava uscire a mangiare gratis, stare sulle nostre spalle.
Ci furono una escursione per andare a mangiare a Pécs e alcuni piacevoli giri in campagna. Mi colpirono delle strane colline, per metà coperte da boschi, per l’altra metà dal prato…
Nei giardini delle case la gente prendeva il sole in costume. La natura era rigogliosa. Tanti facevano l’autostop e fu bello condividere le gioie del viaggio con diverse persone.
continua...
lunedì 20 aprile 2009
10° puntata - Gianni - parte 1/4
Il mio ex-collega Gianni è stato un fenomenale viaggiatore. I suoi racconti hanno tante volte risollevato il mio umore in giornate di duro lavoro. Registro l’intervista durante la pausa pranzo, in ufficio. Abbiamo solo un’ora di tempo, poco rispetto alla gran mole di storie che lo hanno visto protagonista. Gianni parte a velocità supersonica. Si comincia con un viaggio datato 1983 in Jugoslavia, nei giorni di Pasqua, in compagnia dei suoi amici Massimo e Cisio.
Affittammo un bungalow a Lubiana, nel campeggio comunale. Dopo esserci sistemati, partimmo per un giro della città. Nell’avvicinarci alla macchina notammo che ignoti avevano staccato alcuni adesivi, per dispetto, in particolare quelli con riferimenti agli Stati Uniti d’America. Passammo la serata in una discoteca con selezione musicale di salsa e merengue. Lubiana... classica città mitteleuropea di derivazione austro-ungarica, si vedeva il segno del passato austro-ungarico... nello stesso tempo città modernissima, fatta di grandi viali alberati e molto pulita. Circolavano alcune Fiat 600 color carota delle società dei telefoni, un po’ buffe. Gli abitanti conoscevano tutte le lingue. Ci chiedevano caffé italiano, perché lì si beveva solo caffé turco. Si potevano trovare distributori di benzina Agip! Quello slavo era un socialismo riformato, dove si poteva intraprendere un’attività privata, aprire un negozio o un albergo, sia pur con certe restrizioni.
Lasciammo Lubiana per pranzare sull’isola di Cherso e viaggiammo in compagnia di truppe dell’esercito jugoslavo. I passeggeri erano o italiani come noi o militari slavi, circa tre o quattrocento, che andavano sull’isola di Cherso per svolgere il servizio di vigilanza. Avevamo portato una colomba e la dividemmo con tutti i passeggeri a bordo, salvo che con i soldati, i quali si tenevano a distanza. Grande festa! Scesi su Cherso, incontrammo degli slavi-italiani con la Gazzetta sotto braccio. Alcuni ci chiamavano dalle finestre gridando “Siete italiani!”. Il posto era bello, ci salutavano i vecchi dalle case…
Durante la vacanza successiva, nel 1984, transitai da Sofia mentre viaggiavo in autobus diretto in Turchia. Al confine jugo-bulgaro gli autisti regalavano Marlboro a tutto spiano per passare prima, sia agli jugoslavi che ai bulgari. I poliziotti bulgari presero i passaporti e ce li restituirono quattro ore dopo. Ci fu una sosta ad un autogrill bulgaro, trascurato e malandato: l’addetta lavava e chi entrava pisciava per terra. A Sofia ci fermammo in un quartiere turco, non fu possibile avventurarsi. Al confine tra Bulgaria e Turchia i doganieri bulgari controllarono un tir ungherese che andava in Turchia e che trasportava mattonelle: le mattonelle finirono tutte in cocci!
Nel 1985 organizzai un nuovo viaggio in Croazia, puntando al mare, prima a Pula, poi Parenzo. Scelsi la Croazia perché era più vicina della Spagna. Non c’era una particolare atmosfera socialista, non vedevo grandi differenze. Incontrammo molti italiani del nord-est.
Per Pula ci vollero sette ore di treno da Trieste, cambiando a Divaccia, dove perdemmo la coincidenza e fummo costretti a dormire sulle panchine con turisti spagnoli che mangiavano per terra e ferrovieri slavi che bestemmiavano in italiano.
Un giorno notammo una discussione in un bar dove alcuni croati parlavano male a dei tizi serbi, un po’ di battibecchi… alla fine qualcuno ci spiegò che si guardavano di traverso tra loro. I croati ci dicevano: tu non hai conosciuto uno slavo, ma un croato! Conoscevano le squadre di Milano, non avevano senso di inferiorità, si sentivano alla pari. Non c’era neanche troppa differenza nel look. La vera differenza stava nei negozi: vuoti. Erano cooperative con mattonelle alle pareti e sembravano cessi.
continua...
Affittammo un bungalow a Lubiana, nel campeggio comunale. Dopo esserci sistemati, partimmo per un giro della città. Nell’avvicinarci alla macchina notammo che ignoti avevano staccato alcuni adesivi, per dispetto, in particolare quelli con riferimenti agli Stati Uniti d’America. Passammo la serata in una discoteca con selezione musicale di salsa e merengue. Lubiana... classica città mitteleuropea di derivazione austro-ungarica, si vedeva il segno del passato austro-ungarico... nello stesso tempo città modernissima, fatta di grandi viali alberati e molto pulita. Circolavano alcune Fiat 600 color carota delle società dei telefoni, un po’ buffe. Gli abitanti conoscevano tutte le lingue. Ci chiedevano caffé italiano, perché lì si beveva solo caffé turco. Si potevano trovare distributori di benzina Agip! Quello slavo era un socialismo riformato, dove si poteva intraprendere un’attività privata, aprire un negozio o un albergo, sia pur con certe restrizioni.
Lasciammo Lubiana per pranzare sull’isola di Cherso e viaggiammo in compagnia di truppe dell’esercito jugoslavo. I passeggeri erano o italiani come noi o militari slavi, circa tre o quattrocento, che andavano sull’isola di Cherso per svolgere il servizio di vigilanza. Avevamo portato una colomba e la dividemmo con tutti i passeggeri a bordo, salvo che con i soldati, i quali si tenevano a distanza. Grande festa! Scesi su Cherso, incontrammo degli slavi-italiani con la Gazzetta sotto braccio. Alcuni ci chiamavano dalle finestre gridando “Siete italiani!”. Il posto era bello, ci salutavano i vecchi dalle case…
Durante la vacanza successiva, nel 1984, transitai da Sofia mentre viaggiavo in autobus diretto in Turchia. Al confine jugo-bulgaro gli autisti regalavano Marlboro a tutto spiano per passare prima, sia agli jugoslavi che ai bulgari. I poliziotti bulgari presero i passaporti e ce li restituirono quattro ore dopo. Ci fu una sosta ad un autogrill bulgaro, trascurato e malandato: l’addetta lavava e chi entrava pisciava per terra. A Sofia ci fermammo in un quartiere turco, non fu possibile avventurarsi. Al confine tra Bulgaria e Turchia i doganieri bulgari controllarono un tir ungherese che andava in Turchia e che trasportava mattonelle: le mattonelle finirono tutte in cocci!
Nel 1985 organizzai un nuovo viaggio in Croazia, puntando al mare, prima a Pula, poi Parenzo. Scelsi la Croazia perché era più vicina della Spagna. Non c’era una particolare atmosfera socialista, non vedevo grandi differenze. Incontrammo molti italiani del nord-est.
Per Pula ci vollero sette ore di treno da Trieste, cambiando a Divaccia, dove perdemmo la coincidenza e fummo costretti a dormire sulle panchine con turisti spagnoli che mangiavano per terra e ferrovieri slavi che bestemmiavano in italiano.
Un giorno notammo una discussione in un bar dove alcuni croati parlavano male a dei tizi serbi, un po’ di battibecchi… alla fine qualcuno ci spiegò che si guardavano di traverso tra loro. I croati ci dicevano: tu non hai conosciuto uno slavo, ma un croato! Conoscevano le squadre di Milano, non avevano senso di inferiorità, si sentivano alla pari. Non c’era neanche troppa differenza nel look. La vera differenza stava nei negozi: vuoti. Erano cooperative con mattonelle alle pareti e sembravano cessi.
continua...
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