Presentazione del blog

Dall’intervista di Antonio (Mosca 1980), parlando del suo rientro in Italia:

<… Durante la lezione di geografia di una prof sicuramente poco comunista (o poco simpatizzante ogni volta che si parlava dell’Urss) sentii predicare “in Urss non c’è questo, non c’è quello… non ci sono le macchine...” e io, beato, con tutto il gusto proprio di un bambino, alzai la mano e le dissi “prof, non è assolutamente vero che non ci sono macchine, io sono appena tornato da Mosca e Le assicuro che c’è un traffico della Madonna!”. Lei rimase di sasso...>

Non cercavo soltanto un libro che descrivesse la vita quotidiana dei lavoratori nei paesi socialisti. Per me era importante l’identità dello scrittore, la sua professione.

Storico? Giornalista? Politico? Ambasciatore? No, grazie. L’autore del libro che non sono mai riuscito a trovare sarebbe dovuto essere uno come tanti, magari un operaio/a, un impiegato/a, una persona qualunque, un tipo pulito. Avete mai provato a prendere in mano i testi in commercio sull’argomento? Vi siete resi conto che sembrano fotocopiati? E continuano a sfornarne di nuovi! Vi è mai capitato di soffermarvi sulle risposte dei principali quotidiani nazionali ai quesiti dei lettori interessati alla storia del socialismo reale? I commenti sono preconfezionati! Sono sempre gli stessi! Superficiali, piatti, decontestualizzati, buoni per il “consumatore di storia” massificato. Non parliamo dei documentari. Diamine! La storia è una cosa seria. E’ la memoria! Non bisognerebbe neanche scriverne sui giornali!

Ciò che mi fa salire la pressione è il revisionismo. Passa il tempo, i ricordi sbiadiscono e una cricca di farabutti si sente libera di stravolgere il corso degli eventi, ribaltare il quadro delle responsabilità e di combinare altre porcherie che riescono tanto bene agli scrittori più in voga. Tale è l’accanimento… vien da pensare che il Patto di Varsavia esista ancora da qualche parte!

Un giorno mi sono detto: io non mi fido, il libro lo scrivo io.

Ho iniziato a rintracciare gente che si fosse recata nei paesi socialisti europei prima della loro conversione all’economia di mercato. Ho intervistato quattordici persone esterne ai giochi di potere e libere da qualsiasi condizionamento (eccezion fatta per le intime convinzioni proprie di ciascun individuo che non mi sento di classificare tra i condizionamenti). I loro occhi sono tornati alle cose belle e a quelle brutte regalandomi un punto di vista diverso da quello dell’intellettuale o dell’inviato televisivo. Grazie ad alcuni libri di economia usciti nel periodo 1960-1990, ho tentato di rispondere ai quesiti sorti nel corso delle registrazioni.

http://viaggipianificati.blogspot.com/ è l’indirizzo web dove è possibile leggere le straordinarie avventure a puntate di italiani alla scoperta del vero socialismo e delle cose di tutti i giorni. A registrazione avvenuta, è possibile lasciare un commento.

Visitando il blog potrete idealmente gustarvi un’ottima birretta di fabbricazione “democratico-tedesca” seduti in un bel giardino della periferia di Dresda, nuotare nella corsia accanto a quella occupata da un “futuro” campione olimpico ungherese, discutere coi meccanici cecoslovacchi, e… molto altro. Buon divertimento!

Luca Del Grosso
lu.delgrosso@gmail.com


Il libro "Viaggi Pianificati" è in vendita ai seguenti indirizzi:

http://www.amazon.it/Pianificati-Escursioni-socialismo-europeo-sovietico/dp/1326094807/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1461691231&sr=8-1&keywords=viaggi+pianificati

http://www.lulu.com/shop/luca-del-grosso/viaggi-pianificati/paperback/product-21997179.html

in formato cartaceo o "file download" .





giovedì 28 maggio 2009

21° puntata - Mariangela - parte 3/6

C’erano in giro molti italiani. In seguito al devastante terremoto del 1988, un sacco di italiani erano andati ad aiutare, a tirar fuori gente. Camminavi per la strada e appena ti sentivano parlare gridavano: “ehi italiano!”. Un signore per strada fece proprio così “ehi italiani!”, alzando il pugno chiuso, e noi felici “ehi, compagno, tovarisc!”. Gli italiani erano molto amati. Una sera, in un locale dove si beveva, ci accorgemmo che un italiano sedeva al nostro fianco. Ci raccontò che era rimasto perché “c’era da fare”. La domanda fu: tappeti? “Eh sì, tappeti, è una buona strada”. Aveva capito che poteva fare questo export, anche se con dei limiti.

Quello che veniva fuori appena chiacchieravi con qualcuno era che Gorbaciov piaceva tanto a noi occidentali, ma che a loro non era mai piaciuto, non tanto Gorbaciov quanto Raisa Maksimovna, tutti ce l’avevano con lei, donna molto diversa da quelle dei presidenti precedenti. Anche Gorbaciov era diverso dai presidenti precedenti. Era in atto un boicottaggio, non arrivava niente di quello che doveva arrivare. A Mosca non arrivavano né sapone né sigarette. Prova a togliere le sigarette ad un russo: ti ammazza! Sono dei grandi fumatori. Ma se a te tolgono il sapone, anche tu ti incazzi! Ho visto le famose code, fuori dai GUM. Un giorno mi unii ad una coda esagerata, poi chiesi di che si trattava. Sapone. Se c’era una coda voleva dire che c’era qualcosa di interessante, io mi ci mettevo. Non arrivava sapone da sette giorni. I prodotti che giungevano dalle periferie del Paese venivano fermati alle porte di Mosca, alle porte di Leningrado, cioè alle porte dei punti vitali della struttura e sembrava che si trattasse di un blocco organizzato. Era già successo nella storia che la sospensione dell’approvvigionamento di merci di prima necessità provocasse il crollo. Quello che percepivi era disamore, non voglio dire odio nei confronti del governo, per Gorbaciov. Dicevano che lui non riusciva a risolvere i problemi. Secondo altri, questi problemi relativi al sapone o alle sigarette venivano creati ad arte da quelli che volevano silurarlo. Tutto sommato, considerato l’epilogo, poteva essere vero. Però loro erano incazzati. “Ma come?” tuonavano “Voi considerate un progressista, un liberale, quest’uomo che di fronte a un tale problema non riesce a schiodarsi, non riesce a fare in modo che questi punti di interruzione del flusso di merci vitali, indispensabili nella quotidianità, vengano tolti?”.
Era il periodo degli orologi russi “Raketa”. Allora, ad ogni passo, c’era qualcuno che ti offriva il Raketa. Se vedevi uno in un angolo con due tipi sospetti, era perché stava comprando dei Raketa. Erano bellissimi e funzionavano! Erano gli anni dell’ ”ondata sovietica”, che toccò anche la moda. Da noi “operazione simpatia”, loro invece ti dicevano che Gorbaciov era un coglione e Raisa una stronza, perché lei lo manovrava.

Visitammo alcuni interessanti siti archeologici, verso l’una del pomeriggio: c’erano quaranta gradi, senz’acqua, c’erano solo i soka. Un massacro. Entrammo anche in una chiesina ortodossa con pianta a croce, un “eremino”, antichissima, ai bordi di un lago gigante, dove trovammo un prete ortodosso, solo soletto, che si faceva fotografare e tutti lo seguivano perché era l’unico umano, in un paesaggio tipico da sud… caldo, colori accesi. Gli armeni non chiedevano mai dell’Italia, ci conoscevano… italiani compagnoni! Ci offrivano i Raketa, la vodka, il caviale nei tentativi di borsa nera, di cambio nero. Prima di cambiare, aspettammo di capire come funzionava questo cambio, perché Barbara si era raccomandata di non cambiare niente per la strada, a causa dell’alto rischio di fregatura.
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lunedì 25 maggio 2009

20° puntata - Mariangela - parte 2/6

Era il periodo delle notti bianche, notti senza buio, una cosa molto strana. Cominciava ad avvicinarsi il tramonto e ci si aspettava che, verso le otto, il sole sparisse. Invece si “fermava” la luce, rimaneva un crepuscolo chiaro e la gente in giro. Erano giunte in città montagne di navi. Marinai, bellissimi, come del resto le ragazze… ragazze sulle banchine, a gruppi, come se fosse stato giorno, che facevano le stupidelle con i ragazzi sui ponti delle navi. I ponti sulla Neva si aprivano tutti insieme alle sei del mattino per far passare le imbarcazioni: aspettammo e, con un occhio solo (che stanchezza!), potemmo godere dello spettacolo dei ponti. Pieno di gente che aveva bevuto l’impossibile, così io potevo chiacchierare… tra uno che parla male la lingua e uno che ha bevuto alla fine ci si capisce. Parlavo russo, un russo elementare. Volevo tuttavia praticare la lingua, comunicare. Dormivamo in uno di quegli alberghi che puzzavano di cavolo, come la quasi totalità degli interni di quel Paese. Nei posti caldi era un po’ diverso. Gli alberghi del pacchetto viaggio non brillavano per comfort ed eleganza, ma le hall erano meravigliose. Sovietiche! Grandissime! Marmi, drappi… ahimè, bastava salire la scala e diventavano spartani. Andava bene così. La tragedia era un’altra. Non si trovava acqua da bere. Ricordo una notte di sete terribile. C’erano le signore ai piani, le digiurnaje, che controllavano, che avevano le chiave di tutto. Senza di loro non si poteva fare niente. La mia non aveva acqua. Nel corso del viaggio ci rendemmo conto che non c’era acqua minerale da nessuna parte. L’acqua del lavandino, se si lasciava scorrere, immediatamente portava due centimetri di ferro nel bicchiere e faceva schifo. Io provai a berla. Lasciava il sapore di ferro in bocca. Quindi ci torturammo bevendo i “soka”, succhi, disponibili in vari tipi, ma in realtà di un unico sapore. Molto dolci, molto zuccherati. Erano buffi, perché i gusti erano ribes, mirtillo, betulla. Un soka dolcissimo quando hai sete… poi hai sete ancora. Eravamo messi male! Però, affascinanti quei coloranti. Avevamo due accompagnatrici: Barbara, italiana, esperta, sicura e l’accompagnatrice russa obbligatoria, Tatiana, giovane e carina, soverchiata dall’italiana. Quanto alla sicurezza, nulla da segnalare. A parte un giorno, a Jerevan o in Uzbekistan… Tatiana arrivò trafelata, mentre stavamo bevendo tranquillamente un tè, dicendo “Forse lo sapete già, ma spero che non vi faccia pensare male. Hanno rubato una macchina fotografica ad un turista!”. A lei sembrava un avvenimento scandaloso, mai capitato prima. Disse che aveva preferito dircelo perché magari saremmo venuti a saperlo da qualcun altro. La vittima apparteneva ad un gruppo che non c’entrava con noi. Che sorpresa! Un furto!
A Jerevan vidi l’unico pugno (umano) alzato di tutto il viaggio in Unione Sovietica.
Un gran casino in Armenia. Armeni, abcasi e azeri avevano cominciato a randellarsi (dispute per questioni territoriali e di indipendenza, ndb) e nella capitale c’erano i carri armati. Già a Leningrado la partenza era stata incerta, fino a che non ci imbarcarono dicendo che la situazione era sotto controllo. La piazza centrale di Jerevan, enorme, meravigliosa, con le belle fontane, occupata per due terzi da carri armati faceva un po’ impressione. Molto più che sapere del furto della macchina fotografica. Secondo la spiegazione ufficiale i carri stavano lì perché la situazione era apparsa complessa fino al giorno prima, ma l’emergenza era rientrata. Che strano il colpo d’occhio! Sulla piazza principale di Jerevan spuntava il mega albergo che ci ospitava, ma che, per un’intera ala, era stato assegnato a gente in fuga dai territori sotto pressione. Guardando la facciata dell’hotel e tutta la parte a destra con i balconi pieni di panni, notai un signore sul balcone con una capretta. Ci spiegarono allora dei recenti accadimenti.
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giovedì 21 maggio 2009

19° puntata - Mariangela - parte 1/6

Un enorme contenitore di colori, odori, luci e personaggi delle più svariate latitudini: questo è il viaggio di Mariangela in Unione Sovietica.

Era il 1989. Avevo trent’anni. L’agenzia ETLISIND aveva elaborato un itinerario massacrante che ci avrebbe portati a Leningrado, Mosca, Jerevan, Tbilisi e, soprattutto, a Taskent e Samarcanda (per noi le top della lista!) in Uzbekistan, d’estate, in ventitre giorni caratterizzati da un continuo salire e scendere dagli aerei, che alla fine ci fece provare un senso di totale spaesamento. Volammo da Milano a Mosca e, il giorno dopo, da Mosca a Leningrado. Eravamo un po’ preoccupati per questo tipo di viaggio, ma non c’era alternativa. Per compiere un giro del genere in autonomia sarebbero servite troppe cose: capacità organizzativa, tempo e molti soldi! Per non parlare dei visti!
Il tour iniziò all’insegna della rapidità di spostamento e di visita delle principali attrattive. Dopo soli tre giorni a Leningrado, partimmo per Jerevan. Ciò voleva dire lasciare qualcosa di nordico, un certo clima, una certa architettura, una certa luce, per Jerevan nel Caucaso. Facce completamente diverse! Come quando dalla Georgia, dove il clima è temperato come quello dell’Italia del Sud, dove si stava molto bene, tra persone fisicamente come noi (non hanno tratti molto diversi dai nostri), passammo in Uzbekistan. Gli uzbeki avevano qualcosa di strano, tratti mongoli ed occhi azzurri…
Prima tappa impressionante. Leningrado è una città dall’aspetto europeo, con grandi palazzi e strade larghe. In estate ha un clima meno problematico di quello invernale. Sembrava una città abbandonata, senza cure. I tram “ballavano” su binari incastrati allo sconnesso fondo stradale. In alcuni tratti le rotaie erano discontinue! I negozi sovietici… una povertà… una “melina” triste, solitaria, conciata: non c’era nulla. La città però era bellissima, con i suoi monumenti e i canali… che atmosfera!
Desideravamo staccarci il più possibile dal gruppo. Con noi, oltre ad una coppia di Livorno, con cui legammo e che avremmo rivisto in Italia, c’erano degli sfegatati comunisti per i quali tutto era perfetto e fantastico e bellissimo, ma c’erano anche i critici, che imprecavano contro le cose che non andavano bene. La cosa divertente era che noi volevamo sganciarci per andare in giro, ma alcune cose di quelle organizzate erano davvero molto curiose, in chiave sindacal-filocomunista. In ogni città si visitava il museo di arte popolare. Alcuni si rivelarono interessanti, altri meno…, Il museo di Jerevan ospitava i tappeti più belli del mondo, dal ‘200 ad oggi. Ci risparmiarono le gite in fabbrica che, invece, fino a qualche anno prima tiravano molto. Per Leningrado era stato previsto un intero giorno da trascorrere all’Ermitage. Di fronte al museo alcune signore tipicamente russe, truccate da matrioska, che avevano un “non so che” del nostro Sud, pesavano le persone. Ogni tanto qualcuno passava, gli dava una monetina e si pesava. Dopo aver visto la collezione dell’Ottocento, che ci interessava maggiormente, scappammo verso la Prospettiva Nevski per camminare e per vedere le librerie. Io studiavo russo e cercavo libri che avrei poi potuto leggere se avessi proseguito nello studio della lingua, com’era nelle mie intenzioni. La mia biblioteca personale conserva un libro che riporta un carteggio tra Dostoievski e un altro signore, un testo con copertina rossa e scritte dorate. I libri, tutti finemente rilegati, costavano pochissimo. Lì si vedeva il comunismo: bei libri a basso prezzo. Qualcuno potrebbe obiettare: sì, ma che libro? solo quello che è permesso leggere. Però, quello che è permesso è bello e costa poco! Entrammo in una bellissima libreria con grandi scaffali in legno e banconi zeppi di libri: passammo le ore cercando di comprendere il significato delle scritte sulle copertine!
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lunedì 18 maggio 2009

18° puntata - Franco - parte 2/2

Vidi Ceausescu e la moglie durante il primo concerto che si tenne nella Sala Palatului di Bucarest, il famoso centro conferenze capace di contenere fino a 4000 persone! Oltre a loro due, erano presenti i vertici del Partito e buona parte dell’entourage di governo. Ogni poltrona aveva un altoparlante che riportava la musica allo spettatore. Un pienone! Eravamo emozionatissimi, ci tremava la voce. Il primo pezzo voluto da Germani fu proprio un quartetto vocale! Eravamo abituati a cose orchestrali, non certo a quella tensione. Non sapevamo alla partenza che saremmo stati i protagonisti di un evento di tale portata. Fu un grande successo!
Gli spettacoli cominciavano alle sette di sera, perché i ristoranti chiudevano alle undici. Noi andavamo a mangiare subito dopo i concerti, che di solito duravano un paio d’ore, appena in tempo per evitare di restare a digiuno. I ristoranti erano statali, quelli che ci lavoravano chiudevano all’orario giusto. Lo stipendio lo prendevano lo stesso. Non c’erano molte alternative. Dopo cena si facevano due passi intorno all’albergo. Per strada non c’era nessuno… ed eravamo sempre accompagnati da quelli del Partito. Alla fine del soggiorno scoprimmo che c’erano delle “cimici” nelle stanze e che una poliziotta in borghese era rimasta sempre accanto ad un nostro collega. Forse per assicurarsi che nessuno di noi potesse fungere da tramite per la fuoriuscita di notizie riservate. Mah…
Un mio collega, simpatizzante di sinistra, rimase male per quanto visto nel corso del viaggio. Tornato in Italia, ebbe parecchi ravvedimenti. Non si aspettava una repressione del genere. Lui a casa faceva la bella vita…
Frutta non ce n’era, ma si mangiava carne a volontà: ci servirono persino un ottimo “chateaubriand”. A noi non mancava nulla, né acqua, né vino, birra o sigarette. Avevamo ricevuto un anticipo in dollari in Italia. Tutti i soldi che erano stati cambiati in valuta locale per le eventuali necessità furono spesi l’ultimo giorno, visto che non avevamo comprato molto dal momento del nostro arrivo. Acquistai un phon, un giradischi e tutto ciò che era in vendita. Quei soldi fuori dalla Romania non valevano niente. Entrai in una sorta di emporio e scelsi un orribile giubbotto di pelle. I negozi avevano quattro stupidate!

I concerti erano gratuiti e sempre affollati. Le ragazze portavano rose da lanciare sul palco in segno di gradimento nei riguardi dei musicisti e foglietti da autografare che venivano raccolti dai nostri facchini, ai quali li riconsegnavamo firmati perché fossero restituiti alle fans. Nel corso della tournée suonammo pezzi diversi dal solito repertorio, fondamentalmente successi internazionali, del blues e pezzi di Remo Germani (come ad esempio la celebre “Baci”). Noi eravamo abituati a vedere il pubblico ballare… lì la gente stava a guardare senza muoversi!
Impazzivano per la musica di James Brown, per il Rhythm and Blues e per “I feel good”.
QQ
Trascorso un mese, lasciammo Bucarest diretti in Bulgaria su invito di una locale organizzazione del Partito. Fummo obbligati ad aspettare per ore alla frontiera tra i due Paesi: Nixon sarebbe passato proprio da quel confine (Agosto 1969, ndb)! Il traffico rimase bloccato per una mattinata intera sotto il sole. Finalmente arrivò il corteo di mezzi della polizia e auto blindate… tirammo un bel sospiro di sollievo.
A Sofia, durante le prove del primo concerto, i funzionari esaminarono la “scaletta” e stralciarono “I feel good”: non si poteva suonare perché, dicevano, la gente sarebbe diventata matta! I responsabili trascorsero l’intero pomeriggio di prove accanto a noi per conoscere il resto del repertorio. Ci chiesero di redigere una nuova scaletta priva di tutte le canzoni spinte: andava bene musica come “Ma l’amore no”. Nessuno doveva eccitare gli spettatori. Furono quindici giorni non particolarmente intensi, ma molto controllati, più che in Romania. Si usciva con le guide. Si faceva tutto con le guide.
Ricordo che ad un concerto la presentatrice ci chiese di smettere di suonare perché la serata era terminata. Mi voltai per appoggiare il sassofono e, girandomi di nuovo verso il pubblico, vidi che non c’era più nessuno! Impressionante! La sala si era svuotata in mezzo secondo!


Franco ci ha lasciati poche settimane dopo l’intervista. Sorrido nel ripensare al suo colorito modo di raccontare. Questo lavoro è dedicato a lui.

giovedì 14 maggio 2009

17° puntata - Franco - parte 1/2

Franco era musicista, orchestrale. Al fianco di Remo Germani (celebrità degli anni ’60, ndb), fu impegnato in una lunga tournée estiva in Romania e Bulgaria. Suonava il sassofono: contralto, baritono e tenore.

Nel 1969 fummo ingaggiati da un dipartimento del PC Rumeno che organizzava spettacoli in piccoli stadi chiamati “gradina de vara”. Partimmo per la Romania con uno spazioso furgone Fiat 238. Eravamo in sei. La qualità della benzina costituì un problema per tutta la durata del viaggio. Passata la frontiera con la Jugoslavia ed effettuato il primo rifornimento di carburante notammo, infatti, che il motore “picchiava in testa”: gli ottani erano diversi. Ma non restammo mai a piedi. Invece che a 130 viaggiavamo a soli 90 km l’ora, in discesa per giunta! La carburazione era sballata.
Al confine rumeno presero nota di tutto ciò che portavamo addosso e nel furgone. Fummo avvisati dell’obbligo di ripresentare all’uscita gli stessi beni. Avevamo preparato una lista degli strumenti musicali in cui spiccava la voce “Eco” (un effetto voce). Il doganiere domandò cos’era l’Eco e, insoddisfatto delle nostre spiegazioni, chiese di scaricare tutto per scoprirlo da solo! Ci rifiutammo con grande determinazione… in fondo era un capriccio! Mi accorsi che dal finestrino si riusciva a scorgere parte del congegno sotto il resto dell’attrezzatura e fortunatamente la guardia si calmò.
La prima tappa fu Bucarest. In un lussuoso albergo, l’Ambassador, si tenne l’incontro con l’organizzazione rumena. Ad ognuno di noi era stata assegnata una suite. L’hotel era stupendo. I pavimenti erano coperti da tappeti alti due dita, eleganti scalinate comunicavano con i piani superiori… prevalevano le tinte rosse nei tendaggi e nei rivestimenti.
Vennero a prenderci e cominciò il tour.

Prima di partire avevo riflettuto sul fatto che avrei visitato paesi comunisti, ma non credevo di poter trovare una situazione tanto brutta. Fuori dall’albergo c’era la desolazione… bambini con brufoli in faccia e visi tristi. L’impressione che ne ricavai fu piuttosto negativa.

Ci fu qualche contatto con le ragazze del posto, belle ragazze, in ordine, curate… per gli artisti è sempre stato facile trovare donne… ma passava tutto in fretta, perché si capiva che non provavano una reale attrazione verso di noi: erano spinte dalla voglia di scappare via.
Per strada c’erano quattro gatti, la macchina era un lusso. Differenze abissali, anche rispetto all’Italia meridionale… non c’era paragone e io, campano di origine, al sud ci andavo! Però il Paese era molto pulito. A Bucarest c’erano i posacenere per strada, non una cicca per terra!

I carcerati erano impiegati per asfaltare le strade. Ne vidi parecchi al lavoro. Viaggiavamo tutti i giorni per toccare mete come Sibiu, Timisoara, Brasov, Craiova, Galati, Costanza e sul percorso si potevano incontrare galeotti nella classica divisa a strisce verticali, al lavoro sotto lo sguardo attento di uomini armati di mitra, in piedi, sui camion della milizia. Era luglio e faceva molto caldo. Transitammo anche da una città dove tutto sapeva di petrolio. Qualsiasi cosa si mangiasse sapeva di petrolio. Odore di petrolio dappertutto.

Tra i nostri facchini (rumeni che montavano e smontavano l’impianto ad ogni concerto) c’era un operaio specializzato. Viveva in un monolocale con cucina in condivisione. Guadagnava due lire nonostante la qualifica e, per arrotondare, durante le ferie venne con noi a sgobbare. Ci portò a casa sua. L’appartamento era composto da un corridoio che sbucava in una cucina e da due stanze, l’una posta a destra e l’altra a sinistra dello spazio comune: i locali erano abitati complessivamente da due famiglie. Era come vivere in una pensione. Però era tutto praticamente gratis, la casa non costava niente.
continua...

lunedì 11 maggio 2009

16° puntata - Manolo - parte 3/3

I dolci erano buonissimi, spettacolari, eccezionali le pasticcerie, che sfornavano torte favolose, al cioccolato, alla frutta, ottime! Non mancavano le pietanze, le carni, spezzatini pesanti, ma ben fatti. Poi, sui treni, i grandi wurstel, di fegato, bianchi, i bratwurste, i wurstel da spalmare, i crauti, i rollmops (alici marinate che avvolgono dei cetrioli in salamoia), insalata di patate, gulasch. Non avevano i “primi”. Ci furono grandi bevute di birra. A Radeberg sorgeva un immenso stabilimento in cui producevano la “Radeberger”, una birra chiara. Bottiglie di vino? Potevano esserci. Pochissimi i liquori! Come superalcolico spesso si serviva vodka oppure quei liquori dolci, tipo sherry, “Amaretto di Saronno”. Andavano fuori di testa per l’Amaretto di Saronno! Avevamo portato della pasta, ma la materia prima non la sapevano trattare. La prima serata fu memorabile. Mio zio, affettuosissimo, mi fece prendere una sbronza di birra e vodka che vomitai la notte stessa.
Loro erano contentissimi di averci lì.

Girovagare era piacevole. Spostandosi in macchina si potevano apprezzare le particolarità del luogo, della campagna, con le sue piccole fattorie e le accoglienti trattorie: ci si fermava, si entrava e ti portavano il wurstel con i crauti, le patate, piatti curati, la birra.
Una delle discriminanti del vivere nella DDR risiedeva nella circostanza di abitare o non abitare a Berlino. Vidi anche lo squallore, case fatiscenti tipo Baggio o Selinunte (quartieri popolari milanesi, ndb). In quei casi provai senza dubbio una sensazione di abbandono.

Era evidente che nessuno avrebbe dato un marco per la salvezza della DDR. All’inizio ero su toni del tipo “ma guardate, l’occidente non va…”. Però, pensando di dover vivere lì… non stiamo parlando mica del Vietnam, ma lì era un problema… non si usciva mai per andare in un luogo di ritrovo…
Soprattutto mancava la possibilità – che per un giovane è vitale - di poter uscire dai confini e andare per il mondo a vedere il più possibile: un giovane deve avere questa spinta.

Quello che mancava completamente era la dimensione frizzantina della lotta di classe, che trovai invece in Russia, nel 1993, quando capii che anche l’ultimo degli stronzi con cui mi mettevo a discutere riusciva a tenermi testa nel discorso. In ogni dibattito i russi lasciavano intendere: non pensare di poter parlare con me di politica facendo troppa ideologia! Erano capaci di affrontare le questioni in maniera lineare, diretta. E questo lo riscontrai a tutti i livelli. C’erano molte persone in grado di contestare profondamente l’Unione Sovietica, piuttosto che la CSI di allora, usando la dialettica. Nella DDR queste persone non esistevano. In Russia i retaggi della rivoluzione del 1917 erano concreti e furono poi evidenziati dalle cronache dei gravi scontri per il malcontento dovuto ai cambiamenti sopravvenuti nei primi anni ’90.
Questi ricordi rimarcano la sostanziale differenza esistente tra un paese dove il proletariato inizia autonomamente la rivoluzione, compiendola, e un altro paese dove la rivoluzione (“imboccata”) si realizza soltanto perché predeterminata da ragioni di spartizione legate alla politica internazionale.

giovedì 7 maggio 2009

15° puntata - Manolo - parte 2/3

Berlino era bellissima, una delle più belle città che avessi mai visitato… del resto, lo era anche Dresda. Berlino era una città molto particolare. C’era ancora il Muro. Passando ad Ovest, superato il Muro, ci si imbatteva in una realtà completamente diversa, nel bene e nel male. Della parte orientale apprezzai il carattere monumentale, i grandi palazzi, l’ordine, le strade, i ristoranti elegantissimi dove si poteva mangiare spendendo appena quattro marchi e mezzo, seduti al tavolino, con i camerieri in smoking che servivano. Erano posti alla portata di tutti i portafogli. Avevano una metropolitana efficientissima. Un giorno la presi senza biglietto, ma fui pizzicato da un sorpresissimo controllore. Probabilmente quella era una delle prime volte che gli capitava un fatto simile. Resosi conto della situazione, mantenendo la calma e guardandosi attorno come per accertarsi che nessuno ci stesse osservando, insistette nel chiedermi di mostrare il biglietto. Io feci scena muta. Dissimulando un certo imbarazzo, di colpo si allontanò. Provai pena per lui. Mi domandai: “Ma perché cazzo non l’ho comprato il biglietto?”.
Era una città davvero bella, soprattutto per i contrasti… perché magari dopo si andava all’Ovest e ci si trovava in un altro centro amministrativo, una classica città occidentale con gli artisti di strada che suonavano, il tossicodipendente svenuto, i poliziotti che fermavano il ladruncolo. Queste cose si vedevano all’Ovest. All’Est era tutto ordinato, “freddo”, ma bello.

Tornato a Dresda, decisi di comprare dei pantaloncini. Era agosto, faceva un caldo della madonna… un paio di pantaloncini costava… che so… 100 lire. Entrai in un negozio di abbigliamento molto spazioso, rischiarato da un’ampia vetrina dedicata interamente ad un manichino mezzo rinsecchito, con tanto di parrucca che… quasi cadeva per terra, e a quattro paia di pantaloncini buttati lì. Indicai alla commessa il capo che mi interessava. Lei, annoiata e scortese, me lo porse per la prova. Calzavano bene, ma le chiesi comunque se era possibile provarne un secondo paio. Quasi le cascarono le braccia! Quello che intendeva farmi capire era: hai bisogno di un paio di pantaloncini? prenditeli e vai! perché devi stare qui a cincischiare?
Acquistai “quel” paio di pantaloncini e me ne andai.

Ha ragione chi sostiene che, se non c’è la logica della proprietà privata, gli individui sono poco incentivati? No, io non lo credo. Anche in quel caso il problema risiedeva altrove. La società era ormai priva di stimoli. Era come se il Paese fosse stato anestetizzato. Noi, per ragioni che derivano dalla nostra storia, la storia del PCI e del movimento comunista, siamo ancora in una fase che, se si parla male di quell’esperienza, è come se si stesse parlando bene dell’occidente. Bisogna liberarsi di questo approccio tutto ideologico alla questione!
continua...

lunedì 4 maggio 2009

14° puntata - Manolo - parte 1/3

Manolo visitò la Germania Democratica per la prima volta nel 1989 in compagnia della madre, originaria di Dresda. “… Sia pur con le aperture che si notavano nel quotidiano, il clima, la cultura, la socialità, lo stesso stile di vita erano profondamente diversi da quelli che avevo conosciuto durante i miei diciotto anni di vita in Italia. Finalmente potevo mettere il naso in un vero paese dell’Est”. Sino ad allora ne aveva soltanto sentito parlare.

Nella DDR avevo due zii, entrambi fratelli di mia madre. Uno viveva a Radeberg (cittadina di circa 15000 abitanti a pochi minuti da Dresda), l’altro a Berlino. Il primo era un operaio, un tecnico, che conduceva una vita dignitosa in una casa con mobili che, in molti casi, si era costruito da solo. Era capace di lavorare il legno. La casa era molto accogliente, vi erano persino angoli riservati alla discussione. La sua era una famiglia normale, come la sua vita, una vita routinaria. Era rimasto molto umano. Fummo suoi ospiti per un paio di settimane, assaporando il gusto della vera DDR. Dopo un lunghissimo viaggio, con svariate coincidenze, eravamo finalmente riusciti a raggiungere Dresda e lui venne a prenderci alla stazione a bordo della classica Trabant. L’altro zio era un personaggio più spigoloso. Funzionario della SED, a tutti gli effetti uomo di partito, rigido, chiuso, con moglie e figlio, era molto meno espansivo del fratello. Viveva in un piccolo, ordinatissimo e asettico appartamento nei palazzoni della periferia di Berlino. Anche la stanza del bambino era “fredda”! Ciò che li accomunava era una radicata disillusione accompagnata da evidente noia di fondo. Col primo si passavano belle serate intorno al tavolo e l’alcol scorreva abbondantemente. Era un fortissimo bevitore di birra che amava mangiare e stare a tavola. Lì finiva la serata, anche perché non c’era la possibilità di andare per locali. Non c’erano bar e, se c’erano, erano posti di una tristezza assoluta, arredati squallidamente. I locali erano luoghi vuoti dove si entrava a bere una birra e a fumare una sigaretta. Non c’erano giovani. Si viveva molto la dimensione della casa.
Il primo fratello era più disponibile a parlare con noi di politica. Io chiedevo, criticavo, contestavo, ma lui era completamente disilluso dalla storia e dalla politica della DDR. Il secondo lo era ancora di più. La militanza nel Partito invadeva la sua dimensione personale. Pur essendo funzionario, era assolutamente disilluso dalla situazione che stava vivendo. Non lo dava a vedere, non ne parlava con piacere e si limitava, anche con mia madre, ad un rapporto di forma, quindi poco propenso ad approfondire. Una pesante noia caratterizzava i giorni di entrambi gli zii.
A Radeberg avevo una cugina poco più giovane di me e altri due cuginetti dell’età di mio fratello. Avevano 14 anni. Con loro si stava bene. Gli spazi per divertirsi esistevano. Si giocava a pallone, si andava a fare il bagno in una mega-piscina, di fatto gratuita, molto ben attrezzata, dove si poteva praticare la pallanuoto con due porte “serie”, da vero campo di pallanuoto, e con trampolini per tuffarsi. C’era un candore in quei ragazzini che… non si poteva trovare nei nostri coetanei italiani. Erano abituati a vivere con maggiore gradualità le fasi della crescita, erano ancora capaci di timidezze che noi non dimostravamo più perché mascherate da atteggiamenti precostituiti, preconfezionati, come ci insegnava la televisione. La televisione della DDR era inguardabile, altrettanto inguardabile quanto la nostra, ma per altre ragioni. Non ero incentivato a sedermi davanti alla tv per vedere Bonanza o un film russo degli anni ‘20 con sottotitoli in bulgaro.
Loro erano poco curiosi nei nostri riguardi. Erano stimolati dalla nostra presenza, ma non chiedevano mai troppo della nostra vita. Eravamo noi i più curiosi. Noi eravamo dei ragazzini particolari… un ragazzino comune si sarebbe messo a piangere nel rendersi conto che lì non avrebbe trovato nulla di ciò a cui era abituato... niente cinema, niente amici o giostre, niente Macdonald’s. Io e mio fratello, invece, ci divertivamo come pazzi. Non ci facevano domande, sembravano abbastanza apatici da questo punto di vista. Devo ammettere che davano l’impressione di essere un po’ tristi.

Quell’esperienza era giunta al capolinea. La sua fine ha liberato forze sociali, nonostante gli odierni criteri di valutazione della qualità della vita evidenzino scarsi miglioramenti… ora c’è la prostituzione, che all’epoca era nascosta, c’è la droga, strumento di controllo dei poveri, che prima era solo per ricchi e funzionari di partito. I risultati si vedranno più avanti.
Qual è il dato? Il loro socialismo non aveva lasciato nulla nel tessuto proletario: quarant’anni non furono sufficienti per costruire un’adeguata coscienza di massa rispetto a quello che capitava nel Paese!
continua...