Presentazione del blog

Dall’intervista di Antonio (Mosca 1980), parlando del suo rientro in Italia:

<… Durante la lezione di geografia di una prof sicuramente poco comunista (o poco simpatizzante ogni volta che si parlava dell’Urss) sentii predicare “in Urss non c’è questo, non c’è quello… non ci sono le macchine...” e io, beato, con tutto il gusto proprio di un bambino, alzai la mano e le dissi “prof, non è assolutamente vero che non ci sono macchine, io sono appena tornato da Mosca e Le assicuro che c’è un traffico della Madonna!”. Lei rimase di sasso...>

Non cercavo soltanto un libro che descrivesse la vita quotidiana dei lavoratori nei paesi socialisti. Per me era importante l’identità dello scrittore, la sua professione.

Storico? Giornalista? Politico? Ambasciatore? No, grazie. L’autore del libro che non sono mai riuscito a trovare sarebbe dovuto essere uno come tanti, magari un operaio/a, un impiegato/a, una persona qualunque, un tipo pulito. Avete mai provato a prendere in mano i testi in commercio sull’argomento? Vi siete resi conto che sembrano fotocopiati? E continuano a sfornarne di nuovi! Vi è mai capitato di soffermarvi sulle risposte dei principali quotidiani nazionali ai quesiti dei lettori interessati alla storia del socialismo reale? I commenti sono preconfezionati! Sono sempre gli stessi! Superficiali, piatti, decontestualizzati, buoni per il “consumatore di storia” massificato. Non parliamo dei documentari. Diamine! La storia è una cosa seria. E’ la memoria! Non bisognerebbe neanche scriverne sui giornali!

Ciò che mi fa salire la pressione è il revisionismo. Passa il tempo, i ricordi sbiadiscono e una cricca di farabutti si sente libera di stravolgere il corso degli eventi, ribaltare il quadro delle responsabilità e di combinare altre porcherie che riescono tanto bene agli scrittori più in voga. Tale è l’accanimento… vien da pensare che il Patto di Varsavia esista ancora da qualche parte!

Un giorno mi sono detto: io non mi fido, il libro lo scrivo io.

Ho iniziato a rintracciare gente che si fosse recata nei paesi socialisti europei prima della loro conversione all’economia di mercato. Ho intervistato quattordici persone esterne ai giochi di potere e libere da qualsiasi condizionamento (eccezion fatta per le intime convinzioni proprie di ciascun individuo che non mi sento di classificare tra i condizionamenti). I loro occhi sono tornati alle cose belle e a quelle brutte regalandomi un punto di vista diverso da quello dell’intellettuale o dell’inviato televisivo. Grazie ad alcuni libri di economia usciti nel periodo 1960-1990, ho tentato di rispondere ai quesiti sorti nel corso delle registrazioni.

http://viaggipianificati.blogspot.com/ è l’indirizzo web dove è possibile leggere le straordinarie avventure a puntate di italiani alla scoperta del vero socialismo e delle cose di tutti i giorni. A registrazione avvenuta, è possibile lasciare un commento.

Visitando il blog potrete idealmente gustarvi un’ottima birretta di fabbricazione “democratico-tedesca” seduti in un bel giardino della periferia di Dresda, nuotare nella corsia accanto a quella occupata da un “futuro” campione olimpico ungherese, discutere coi meccanici cecoslovacchi, e… molto altro. Buon divertimento!

Luca Del Grosso
lu.delgrosso@gmail.com


Il libro "Viaggi Pianificati" è in vendita ai seguenti indirizzi:

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giovedì 30 aprile 2009

13° puntata - Gianni - parte 4/4

Deviammo per Praga. La macchina era piena di fango, sembrava un’auto da rally. Soggiornammo per una settimana intera in un albergo del centro. Non si poteva parcheggiare liberamente, ma studiai un escamotage. Considerato che avevamo prenotato tramite l’Associazione degli Alberghi Cecoslovacchi, lasciammo il volantino dell’associazione e il depliant dell’hotel in bella mostra sul cruscotto. Tutti i vigili che passavano per fare la multa alla fine notavano i depliant e desistevano. Il nostro era l’unico hotel di quella via a non disporre di un parcheggio per i clienti. La macchina restò ferma una settimana. Utilizzavamo i mezzi pubblici. Non dimenticherò facilmente i videoclip di musica cubana proiettati nei mezzanini del metro. Praga si rivelò molto più tranquilla di Budapest. La parte nuova, però, era orribile. Come “vita” era meglio Budapest, che aveva locali jazz, locali rock. In giro per Budapest potevi sentire musica degli Iron Maiden! In Cecoslovacchia si percepiva un maggiore senso di oppressione, la gente era più triste.
In tangenziale i poliziotti ci fermarono più volte, continuavano a rompere, con fare cattivo. Rendendosi conto che tutto era in ordine, diventavano cordiali. Fummo obbligati a portare la macchina ad un’officina. La Fiat si trovava dall’altra parte della città. Un signore ci consigliò di rivolgerci alla più vicina Renault. Ci accompagnò e ci fece persino saltare la fila. Sistemarono la macchina e non volevano soldi. Io regalai mille corone al meccanico che l’aveva aggiustata. L’officina aveva macchine occidentali, belle, come la Golf e altre che in giro non si vedevano.
Ci furono diverse scampagnate e visite, come quella alla fabbrica Skoda - vista solo dall’esterno - e agli impianti della birra Pilsner a Plzen, che in verità ci delusero: capannoni brutti, messi male, niente da rilevare. Plzen sembrava una città tedesca, con i numerosi tram, i viali lunghi e deserti, senza nessuno in giro. Karlovy Vary, città termale, era bellissima. Dormimmo in camere singole, con la radio. Particolare che ci fu fatto notare al check-in. Peccato che le trasmissioni fossero in lingua cecoslovacca! Non passavano neanche un po’ di musica. Le prostitute in hotel erano tante e ci fu anche un piccolo scandalo. Protagonisti alcuni mediorientali con due ragazze cecoslovacche. Alla fine della serata i mediorientali non volevano andare con le ragazze e loro piangevano perché non potevano concludere. Le avevano rifiutate e a loro saltava la serata. Tornammo in Italia.

L’anno dopo era il 1987: capodanno a Berlino Ovest. Attraversate le Alpi e la Baviera, prendemmo l’autostrada che portava dalla Germania Federale a Berlino Ovest . La campagna era bruttissima, sembrava un "day after", ricordava Chernobyl, spoglia... Non si potevano superare i 110 km l’ora. Ad un certo punto vidi un lampo. Pensai “vuoi vedere che ci hanno fatto la multa, che abbiamo superato il limite?” e infatti, dopo un po’ di chilometri, ci accodammo a macchine tedesche occidentali in fila, ferme per pagare la multa. Noi con loro. Quaranta marchi. Con la foto. Ripartiti, dopo venti chilometri fummo affiancati dalla 124 della polizia tedesca con l’agente che urlava in italiano dal finestrino “ueh! bel viaggio? tutto bene? perché non mettete le cinture di sicurezza?” Quaranta marchi. C’erano altane da tutte le parti, con soldati che controllavano. Da lì non si poteva fuggire. Finalmente arrivammo a Berlino Ovest e al controllo documenti. Passammo ad Est dal check-point Charlie. Imbracciavo l’ombrello a mo’ di mitra, per scherzare. Il soldato col colbacco e la stella fece il duro all’inizio, poi divenne gentile. Prese addirittura la cartina e ci indicò le cose da non perdere: le ambasciate americana e russa; l’Opera; la torre della televisione; musei vari… Le donne sembravano uscite dal set di "Star Trek", con quelle tutine anni Sessanta… La parte vecchia di Berlino era diroccata, la tenevano così apposta per far ricordare gli avvenimenti della guerra. Ad Ovest prendevamo spesso il metrò che faceva il passaggio sotterraneo ad Est. I mezzanini di questa linea erano chiusi da reti di ferro, erano fermate non arredate, e si vedevano i poliziotti di guardia. Solo ad una stazione era permesso scendere per entrare in DDR, ma ovviamente c’era il controllo documenti. I locali sparavano musica cubana a tutto spiano. Ci capitò di girare insieme ad altri italiani, in tutto eravamo forse una decina. In un bar ordinammo dei dolci e, nell'accomodarci, unimmo i tavoli. Niente di strano. Fummo sgridati da un furioso cameriere: “Non si può! (Assembramento!) Mettetevi dove ci sono tavoli liberi!”
La gente, in generale, era molto cordiale. Un signore mi lasciò curiosare nella sua Trabant, mentre l’aggiustava.
Ci concedemmo il piacere di un pasto all’Opera, allietati da un chitarrista, con del buon cibo che costava pochissimo. Bellissimo!

lunedì 27 aprile 2009

12° puntata - Gianni - parte 3/4

Lasciammo Budapest alla volta della Cecoslovacchia. L’autostrada era brutta, gibbosa, chilometri di gibbosità a pagamento. Alla frontiera venne a controllarci una poliziotta. Io indossavo un cappellino vietkong e lei lo voleva per sé: “Tu fai un bel regalo a noi cecoslovacchi”. Io le dissi che non facevo un bel regalo di niente. Purtroppo scoprirono il walkman nascosto sotto il sedile. Misero gli specchi sotto la macchina per l’ispezione, ma alla fine la vinsi io, senza perdite. Una volta entrati in Cecoslovacchia notammo che il paesaggio mutava. Diventava duro, più nordico, meno mediterraneo. L’Ungheria, alle nostre spalle, aveva molto del mediterraneo. Fummo subito colpiti da una serie di immagini di forte impatto: prima un bellissimo campo da calcio solcato da due squadre di ragazzini con le maglie rosse, belle, poi l’entrata in scena della simbologia comunista: falce e martello. Non si trovava “benzina privata”. Inoltre, in teoria, non era permesso soggiornare in appartamento.
A Bratislava erano continui i controlli per l’alcol. I poliziotti aspettavano regolarmente che, uscito dal bar, accendessi il motore per venire a rompere. Bevevo molta coca-cola perché guidavo io. Cambiammo soldi in nero dal facchino. Uscendo incontrammo una ragazza molto bella che ci si rivolse in italiano “Ciao milanese! Tutto bene? Senti, vuoi andare in città, io ti porto in giro”. Ci portò a vedere la casa di Havel e un sacco di altre cose. Poi l’accompagnammo a casa. Accese la tv sul canale austriaco. L’appartamento era bellissimo, molto simile a quelli occidentali. Noi eravamo un po’ insospettiti. Poteva essere una confidente della polizia alla ricerca di informazioni. Ci disse che, per la sera stessa, avrebbe preparato una torta e ci invitò a tornare. Nel frattempo arrivò una sua amica bionda che conosceva qualche parola di inglese. La prima ci spinse ad uscire con questa ragazza. Anche lei era molto bella. Dopo un ulteriore giro in città, la bionda ci riaccompagnò in hotel. Fissammo un appuntamento per poi raggiungere la ragazza della torta. All’ora stabilita scendemmo nella hall e lei intanto si era comprata le Marlboro, con la scusa che stava con noi. Le domandammo dell’amica, che non arrivava. Arrivò invece un’altra sua amica, poi un’altra ancora e alla fine ci dissero che la prima non sarebbe arrivata più. Proposero allora di andare a ballare. In macchina si lamentavano perché non avevamo lo stereo: “Italiano senza radio!”. Guidai fino alla discoteca di un grande albergo. Presto si formò al nostro tavolo una grande adunata. Ci presentarono cugini, nipoti… Il cameriere mi chiese se doveva segnare ogni volta che mi portava da bere, e io gli dissi di segnare pure, così ogni volta lui metteva un trattino. Vidi però che prendevano da bere anche gli altri e lui segnava, segnava, segnava, segnava... Ad un certo punto il mio amico, che era tirchio, mi confidò un sospetto: “Gianni, ma questo mi sa che dobbiamo pagarlo tutto noi, questi non tirano fuori una lira!”. Per noi c’erano prezzi occidentali! Mi misi d’accordo col mio amico per riuscire a pagare solo le nostre consumazioni. Poi feci finta di andare a fare un giro. Gli ospiti erano tranquilli, allegri, distratti. Raggiunsi il bancone e chiesi di pagare la birra del mio amico, la coca che avevo bevuto e le rose. “E il resto?” mi chiesero. “Loro!” sentenziai. Il barista non mi credeva: “Come, loro?” e io ribadii “Loro!”. Avevo una gran paura, fuori poteva fermarci la polizia e far storie perché non avevamo pagato. Ma il mio amico mi tranquillizzò dicendomi che non sarebbe capitato nulla. Pagai il mio conto, lui si risedette e mi fece cenno di andare verso il bagno, che era vicino alla scaletta per uscire. Come d’accordo, uscii e… fregatura! Arrivò la polizia a farmi l’esame del tasso alcolemico: mentre soffiavo, sentii arrivare il mio amico. Ce l’aveva fatta! Gli dissi che sarebbe successo un casino con la polizia che ci bloccava e quelli che prima o poi sarebbero usciti dal locale a cercarci. E invece finii l’esame appena in tempo. Partii e vidi uscire la tipa bionda dalla discoteca che gridava “Gianni! Gianni!” Il mio amico si affacciò dal finestrino e le urlò “Italiani sì, ma coglioni no!”. Ero preoccupatissimo, quella notte ebbi paura per la macchina... Il giorno dopo cambiammo albergo, per evitare sorprese. Passò un altro giorno a Bratislava tra un salto in birreria, un sacco di propaganda socialista, un incidente tra camion e tram ed un matrimonio in chiesa.
Di nuovo in macchina, ci dirigemmo ad una località di villeggiatura in montagna, al confine con la Polonia, Starý Smokovec. Tentammo senza troppa convinzione di passare la frontiera, ma non fummo abbastanza fortunati. L’offerta per il pernottamento era di soli cottage-monolocali e c’era molta gente della DDR in vacanza. Il paese era bello, tipo Cortina. Ci dedicammo alla birra e alle mangiate nei grandi posteggi per camion. Il mio amico chiedeva puntualmente il menu. Io gli chiedevo il perché, visto che non ci avrebbe capito niente e infatti non ci capiva mai niente. Avevamo però identificato e memorizzato quattro cose da ordinare. La birra annaffiava tutto. Non potevamo aprire il cofano della macchina per dare una controllata che... subito si formava un capannello di curiosi che volevano vedere il motore Fiat con gli occhi fuori dalle orbite! Provavamo a spiegare che era un’auto di merda, ma loro: “no no, buna buna!”.
continua...

domenica 26 aprile 2009

giovedì 23 aprile 2009

11° puntata - Gianni - parte 2/4

La vacanza successiva fu quella del settembre 1986. L’itinerario toccava nuovamente la Jugoslavia, poi l’Ungheria e la Cecoslovacchia. Per prima cosa ottenemmo i visti da Roma. Partimmo a bordo di una Fiat Uno senza stereo. Si ascoltava una scalcinata radio portatile. Lasciammo Milano al mattino e, giunti molto tardi a Lubiana, con tutti i benzinai chiusi, decidemmo di dormire nel parcheggio del distributore. Al mattino ci svegliò proprio il benzinaio dicendoci che dovevamo aspettare ancora perché doveva prima arrivare l’autobotte per il rifornimento. Facemmo il pieno di benzina alle otto e mezza del mattino. La strada era bellissima, non sembrava neanche di essere in Jugoslavia: bei panorami, tanta natura, ma molta gente con la faccia stanca. Al confine ungherese ci aspettavano un sacco di pratiche da sbrigare. C’erano tre o quattro sbarre da oltrepassare in circa un chilometro di strada in piena campagna. Cinque minuti d’attesa alla prima sbarra. Dopo la prima, ci fermammo altri cinque minuti alla seconda. Infine si aprì e arrivammo al confine vero e proprio. Ci venne incontro un poliziotto. “Buongiorno, benvenuti”, in italiano, “ passaporti!”. Li prese e li mise in una borsa. Non si fece vivo per un’eternità. Con noi un pullman di napoletani in attesa di uscire. I napoletani, incazzati neri, facevano casino perché i doganieri volevano fare un cambio di soldi slavi con altri soldi slavi. Gli ufficiali ci chiesero per quanto tempo avevamo intenzione di fermarci. Rispondemmo “quindici giorni!” e ci mandarono a cambiare soldi per quindici giorni. “Compra i fiorini!”. Finalmente ci restituirono i passaporti con molti timbri, le scritte della durata della permanenza e dell’entrata. Entrammo in un paese bellissimo, una campagna meravigliosa, sotto il sole, che sembrava la Lombardia degli anni Sessanta. Ammiravamo le loro macchinine. Anche in Ungheria non demmo molto nell’occhio. Avevano un socialismo libero. Guardavano la tv occidentale, facevano benzina dove volevano, avevano appartamenti privati da affittare ai turisti. Le indicazioni stradali erano incomprensibili. Gustammo del buon gulasch con paprika in una località sul Balaton, poi ci dirigemmo al capoluogo della regione del Balaton, Siofok, che sembrava Rimini. Era piena di gente di Budapest e di austriaci. Appena arrivati fummo intercettati da un livornese, sposato con una ungherese, che ci affittò casa sua dopo averci portato alla centrale di polizia per la segnalazione. A casa c’era una vecchietta che pregava di nascosto. In quel luogo facemmo un mucchio di conoscenze, ad esempio pranzando nei ristoranti privati, dove peraltro il cibo era pessimo… la cucina era mitteleuropea classica a base di wurstel, pollo fritto, patatine, cose da fast food prodotte con macchinari. Invece nei ristoranti statali… conoscevano tutti l’italiano, c’era il violinista zigano, ci trattavano bene e costavano poco, pochissimo.
Partimmo fiduciosi per Budapest, la grande delusione. Affittammo un appartamento composto da quattro locali e servizi in pieno centro, sul Danubio, ma che si sarebbe liberato soltanto il giorno successivo. Conoscemmo due livornesi che ci ospitarono per la notte, furono cortesi… visto che erano già stati registrati. Noi non ancora, quindi avevamo un po’ di paura. Alle nove del mattino seguente suonò il campanello dell’appartamento. I livornesi erano già andati via. Aprii la porta e mi trovai di fronte un gran pezzo di figliola: le chiesi che cosa voleva da noi. Lei provò a spiegare qualcosa, ma non si capiva niente. Nel dubbio, le sbattei la porta in faccia. Dopo qualche minuto suonò ancora il campanello: era il padrone. Ci spiegò che quella era la donna delle pulizie. Diventammo amici. Ci fece visitare il cortile della casa, che per la verità versava in cattivo stato, con l’erba incolta e altri chiari segni di incuria... Chiedemmo il perché di quel disordine e ci spiegò che era tutto statale e non si poteva fare granché. Il padrone ci portò a casa sua, che non era grande neanche la metà dello spazio che affittava ai turisti. Parlottammo in inglese. Credeva che la Juve fosse di Milano!
L’inquinamento era spaventoso. L’alloggio si trovava nei pressi della circonvallazione ed ogni giorno la sveglia era data all’alba dal fracasso causato dal traffico di automobili. La nostra macchina era stata parcheggiata sul marciapiede che divideva i due sensi di marcia. Trascorsi sette giorni, senza che venisse mai utilizzata, risultò interamente coperta da almeno “due dita” di polvere nera.
I quartieri nuovi di Budapest somigliavano ai milanesi Gratosoglio e Gallaratese. La città vecchia, invece, era bella. La notte andavamo nei locali frequentati dalla nomenklatura, pieni di prostitute che si distinguevano a fatica dalle ragazze “regolari”. Gente ungherese benestante vestita all’occidentale, ma piuttosto pacchiana, arrivava con i taxi. Ah… i tassisti ci imbrogliavano di continuo e noi gettavamo i soldi a terra, in segno di disprezzo. Usavamo il metrò, il tram, da capolinea a capolinea. Di musei non ne visitammo affatto, non ne avevamo voglia. I contatti con gli ungheresi furono buoni, ma l’impressione era di essere presi per il culo: gli interessava uscire a mangiare gratis, stare sulle nostre spalle.
Ci furono una escursione per andare a mangiare a Pécs e alcuni piacevoli giri in campagna. Mi colpirono delle strane colline, per metà coperte da boschi, per l’altra metà dal prato…
Nei giardini delle case la gente prendeva il sole in costume. La natura era rigogliosa. Tanti facevano l’autostop e fu bello condividere le gioie del viaggio con diverse persone.
continua...

lunedì 20 aprile 2009

10° puntata - Gianni - parte 1/4

Il mio ex-collega Gianni è stato un fenomenale viaggiatore. I suoi racconti hanno tante volte risollevato il mio umore in giornate di duro lavoro. Registro l’intervista durante la pausa pranzo, in ufficio. Abbiamo solo un’ora di tempo, poco rispetto alla gran mole di storie che lo hanno visto protagonista. Gianni parte a velocità supersonica. Si comincia con un viaggio datato 1983 in Jugoslavia, nei giorni di Pasqua, in compagnia dei suoi amici Massimo e Cisio.

Affittammo un bungalow a Lubiana, nel campeggio comunale. Dopo esserci sistemati, partimmo per un giro della città. Nell’avvicinarci alla macchina notammo che ignoti avevano staccato alcuni adesivi, per dispetto, in particolare quelli con riferimenti agli Stati Uniti d’America. Passammo la serata in una discoteca con selezione musicale di salsa e merengue. Lubiana... classica città mitteleuropea di derivazione austro-ungarica, si vedeva il segno del passato austro-ungarico... nello stesso tempo città modernissima, fatta di grandi viali alberati e molto pulita. Circolavano alcune Fiat 600 color carota delle società dei telefoni, un po’ buffe. Gli abitanti conoscevano tutte le lingue. Ci chiedevano caffé italiano, perché lì si beveva solo caffé turco. Si potevano trovare distributori di benzina Agip! Quello slavo era un socialismo riformato, dove si poteva intraprendere un’attività privata, aprire un negozio o un albergo, sia pur con certe restrizioni.
Lasciammo Lubiana per pranzare sull’isola di Cherso e viaggiammo in compagnia di truppe dell’esercito jugoslavo. I passeggeri erano o italiani come noi o militari slavi, circa tre o quattrocento, che andavano sull’isola di Cherso per svolgere il servizio di vigilanza. Avevamo portato una colomba e la dividemmo con tutti i passeggeri a bordo, salvo che con i soldati, i quali si tenevano a distanza. Grande festa! Scesi su Cherso, incontrammo degli slavi-italiani con la Gazzetta sotto braccio. Alcuni ci chiamavano dalle finestre gridando “Siete italiani!”. Il posto era bello, ci salutavano i vecchi dalle case…

Durante la vacanza successiva, nel 1984, transitai da Sofia mentre viaggiavo in autobus diretto in Turchia. Al confine jugo-bulgaro gli autisti regalavano Marlboro a tutto spiano per passare prima, sia agli jugoslavi che ai bulgari. I poliziotti bulgari presero i passaporti e ce li restituirono quattro ore dopo. Ci fu una sosta ad un autogrill bulgaro, trascurato e malandato: l’addetta lavava e chi entrava pisciava per terra. A Sofia ci fermammo in un quartiere turco, non fu possibile avventurarsi. Al confine tra Bulgaria e Turchia i doganieri bulgari controllarono un tir ungherese che andava in Turchia e che trasportava mattonelle: le mattonelle finirono tutte in cocci!

Nel 1985 organizzai un nuovo viaggio in Croazia, puntando al mare, prima a Pula, poi Parenzo. Scelsi la Croazia perché era più vicina della Spagna. Non c’era una particolare atmosfera socialista, non vedevo grandi differenze. Incontrammo molti italiani del nord-est.
Per Pula ci vollero sette ore di treno da Trieste, cambiando a Divaccia, dove perdemmo la coincidenza e fummo costretti a dormire sulle panchine con turisti spagnoli che mangiavano per terra e ferrovieri slavi che bestemmiavano in italiano.
Un giorno notammo una discussione in un bar dove alcuni croati parlavano male a dei tizi serbi, un po’ di battibecchi… alla fine qualcuno ci spiegò che si guardavano di traverso tra loro. I croati ci dicevano: tu non hai conosciuto uno slavo, ma un croato! Conoscevano le squadre di Milano, non avevano senso di inferiorità, si sentivano alla pari. Non c’era neanche troppa differenza nel look. La vera differenza stava nei negozi: vuoti. Erano cooperative con mattonelle alle pareti e sembravano cessi.
continua...

giovedì 16 aprile 2009

9° puntata - Isa - parte 2/2

Stesso “clima umano” in Jugoslavia. Nei ristoranti a gestione statale potevano passare ore prima che ti servissero qualcosa. Mangiai cose incredibili e non si capiva mai cosa mettessero nel piatto. Vana fu il più delle volte la ricerca di ristoranti “non statali”. Gli “statali” avevano degli orari prefissati per mangiare, c’era un orario di entrata e di uscita. I camerieri erano scassatissimi! In queste situazioni vidi la rappresentazione concreta dell’immaginario occidentale del socialismo. Quando si aveva a che fare con qualcosa di governativo saliva l’angoscia, per le code, i tempi lunghi. Passare la frontiera per entrare in Jugoslavia non era cosa da un minuto. I doganieri prendevano i documenti, sparivano dentro l’ufficio e dopo un bel po’ ritornavano. Ma alla fine, con molta pazienza, si riusciva a fare tutto.
La mia prima visita risale all’estate del 1983, in occasione di una vacanza in moto con il mio fidanzato. Percorremmo buona parte della costa adriatica, partendo da un punto a nord di Spalato. Ci piaceva fare campeggio.
La moto ebbe dei problemi e fummo ben assistiti dai meccanici jugoslavi. Ci dissero subito che il mezzo si poteva riparare, non era un grave guasto, ma c’era da aspettare. Grazie all’efficienza “socialista” non esistevano cose impossibili!

Tornai ancora in Jugoslavia per una vacanza in camper al mare, a sud, non lontano dal Montenegro. Le vacanze al mare in Jugoslavia erano molto convenienti rispetto a quelle che avrei potuto organizzare in Italia. C’erano pregiudizi nei riguardi di questo Paese. La gente in Italia non diceva mai “ah sì, bello! ci andrò anch’io!”.
Molti jugoslavi parlavano italiano e ne rimasi colpita. Ebbi l’impressione che stessero ricercando qualcosa dell’occidente. La gente, per esempio, aveva la mania delle magliette con le scritte o dei jeans: gli piacevano le “americanate”. Ancor di più a livello musicale!
Indimenticabile Mostar! La visitai per ben due volte, sia in moto che in camper, e il suo bellissimo ponte... Questa zona era già turistica, c’erano molti negozietti. In seguito, nel corso della guerra balcanica, fu teatro di aspri combattimenti. Assieme alla città bombardarono i miei ricordi. Pensai ai luoghi visti, alle persone conosciute…

Il viaggio in Cecoslovacchia può essere ricordato per i miei “acquisti socialisti”.
Giunsi a Praga in treno, con un’amica e un amico, per trascorrervi le vacanze di Pasqua, credo nel 1987. Ci eravamo procurati una guida “Clup”. In un capitolo spiegavano che, recandosi in una determinata piazza, si potevano trovare persone che avrebbero proposto soluzioni alternative agli hotel, cioè le loro abitazioni. Scesi dal treno, camminammo fino alla piazza menzionata nel libro e fummo presto avvicinati da una signora, che ci concesse l’uso del suo appartamento, in periferia. I termosifoni erano roventi, la casa caldissima. Tante porte, tante stanze, ma piccole, come in Asia. Io e la mia amica avevamo a disposizione la camera da letto, che non aveva finestre. Il nostro amico Enrico dormiva sul divanetto in sala. Quante cose “plasticose” in giro! Il rivestimento del tavolo, oggetti fuori corso, non decadenti, ma del tipo “casa della nonna”, cose passate. E tanto cibo in scatola.
Feci acquisti. Scatolame, la spilletta dello Sparta Praga e, soprattutto, il prosciutto di Praga che portai a mamma e papà da assaggiare. I miei genitori gestivano una salumeria. Fu curioso sentire il loro commento, infatti sostenevano che questo prosciutto non era stato affumicato come il “Praga” che si vendeva in Italia.
Praga era bellissima, ma gli abitanti mi sembrarono persone poco solari, i visi erano duri.
I bar restavano aperti fino a tardi, noi andavamo in giro anche la sera. Facevamo dei tour con i mezzi pubblici da capolinea a capolinea, per curiosare. Una sera trovammo una birreria così affollata che dovemmo rinunciare ad entrare.
Praga si rivelò piuttosto vivace. Nessun problema dal punto di vista della sicurezza, né qui, né negli altri posti!
Enrico era molto insofferente, li trovava maleducati, rudi. Era scocciato e innervosito da questo loro aspetto cupo. Io, quando viaggio, mi adatto e non penso mai che il tipo del posto ce l’ha con me perché sono straniera, non me la prendo per il trattamento che ricevo. Sono caratteristiche dei popoli che visiti.
I miei coetanei di Varsavia e di Praga sembravano degli “adulti cresciuti”, tutti sistemati, con famiglia…Le donne dell’Est avevano il viso rubicondo ed erano grandi lavoratrici. La “nostra” signora di Praga girava sempre con un bellissimo foulard in testa che non tolse mai in nostra presenza. Chissà di che colore erano i suoi capelli…

lunedì 13 aprile 2009

8° puntata - Isa - parte 1/2

Questo è il racconto di una donna che abita lontano dall’Italia e che si trova qui per pochi giorni all’anno. Grazie all’intermediazione di amici comuni è venuta a conoscenza del mio progetto e si è detta subito disponibile.
Isa transitò dalla Polonia nel 1987, a ventisette anni, non proprio per scelta. In precedenza aveva infatti comprato un biglietto aereo per la Thailandia, per trascorrervi le vacanze di Natale insieme al suo fidanzato. Il vettore che offriva la soluzione più economica era Lot, la compagnia di bandiera polacca. La tratta di ritorno, considerata la lunga sosta tecnica a Varsavia (2 giorni), includeva il costo di un pernottamento.


Tornavo allora dalla Thailandia, Paese del sorriso. Era stato il mio primo viaggio in Asia: spiagge, sole... Arrivata a Varsavia, appena scesa dall’aereo, cominciai a perdere sangue dal naso! In Thailandia c’erano più di trenta gradi. A Varsavia un freddo da pinguini! Sotto zero. Un dramma, da far spavento! Ci accompagnarono in hotel. Sulle mura esterne era stato appeso uno striscione, con scritte in polacco, ma sicuramente di Solidarnosc. Era in corso uno sciopero del personale della durata di due giorni. Di conseguenza il servizio si rivelò pietoso. Per cena, nel freddo e spoglio ristorante, ci servirono una foglia di insalata e un uovo sodo.
Alla reception trattennero sia il biglietto aereo che i passaporti, fino alla partenza. Non ci lasciammo intimorire. In albergo c’erano altri due ragazzi italiani con cui si faceva “comunella”. Ci avventurammo prendendo il tram tutti insieme ad una fermata posta su un grande viale alberato. Io avevo ricordi letterari di Varsavia, la credevo una Parigi del nord. Nella mia testa c’era una città affascinante. Vi era nata Marie Curie, Chopin vi aveva studiato: immaginavo che avesse un aspetto romantico! La città vecchia era in effetti molto bella e scoprii che il centro era stato ricostruito con cura. Il mio fidanzato ne parlava bene, lui aveva studiato arte. Quanto ai palazzi in stile socialista, i “casermoni”, erano proprio come ce li aspettavamo.
“Freddo umano”: è un’espressione che uso per indicare i tanti ubriachi per strada, in centro, gente trascurata e rissosa. Insomma, quello era il socialismo come solitamente veniva “venduto” in Italia: freddo, buio e poco umano. Passanti imbronciati, come i milanesi di oggi. La sera, in giro, notammo che gli esercizi chiudevano presto e si vedevano ovunque persone alticce. I poliziotti erano veri “marcantoni” in grandi cappotti. Sembravano prodotti in serie, tutti così ben piazzati!
Amo l’organizzazione e quello che poteva piacermi del socialismo era ciò che la maggior parte delle persone indicava come suo aspetto dominante. La città nel suo carattere ordinato, nella sua linearità, non mi dispiacque affatto.
Ma io avevo altre attese da questo stop a Varsavia, accresciute dall’episodio della lunghissima resistenza ai nazisti: giorni e giorni di lotta...
Fu una delusione, forse dovuta al fatto che provenivo dalla Thailandia: un contrasto troppo forte.
continua...

giovedì 9 aprile 2009

7° puntata - Antonio - parte 2/2

Transitai da Mosca ormai ventenne, nel 1989, sulla rotta per il Sud America. Conobbi una ragazza ecuadoregna in hotel, anche lei di passaggio. In un certo senso ci fidanzammo. Nel corso di un appassionato bacio dentro i magazzini GUM, fummo richiamati da una signora russa. Voleva che interrompessimo il bacio perché non era consentito. Più tardi, mentre eravamo seduti sul pullman, una scocciatissima e determinatissima signora anziana ci ordinò di lasciarle il posto. Probabilmente era arrabbiata per il fatto che, per la nostra scarsa attenzione, si era vista costretta a chiedere ciò che le era dovuto e l'avevamo messa in una situazione imbarazzante.
Ero partito da Milano con un visto che mi avrebbe consentito di uscire dall’aeroporto di Mosca. Senza quel documento i due giorni di scalo tecnico li avrei dovuti trascorrere in sala d'attesa. Al ritorno per lasciare l'aeroporto bastò il visto dell’andata. Credo che ciò dipese dai grandi cambiamenti in corso in quei mesi (era il settembre 1989). All’andata alloggiai nell’albergo vicino all’aeroporto. Scrissi il nome dell’aeroporto, presi un bus e me ne andai a Mosca, con la ragazza dell’Ecuador. Metro, Piazza Rossa, all’avventura, con una cartina banalissima. Per rientrare chiedemmo indicazioni ai passanti mostrando il bigliettino. Quelli facevano certe facce come dire “ahhh, come cazzo fate a tornarci!”. Ci accompagnarono per prendere i mezzi giusti, gentilissimi. Scritte e lingua incomprensibili, disagi compensati dalla grande cortesia dei moscoviti. All’ingresso del metrò non c’era il tornello, almeno così sembrava. Volli provare! Passai senza biglietto e... tac! Blindato! Spuntava una sbarra! Lì pagavano tutti. Non come da noi. Se si passava senza pagare pensando “è libero”... tac! Usciva la barra. Non so dire se fosse un congegno installato in tutte le fermate o solo in quella particolare metropolitana, però mi sorprese, come del resto mi colpirono le lunghissime scale mobili. A Milano da un po’ di tempo proviamo a spiegare che sulla scala mobile si deve stare a destra, lì ci erano già arrivati. Educati nelle file, alle fermate dei pullman. Una cosa logica.
Altre cose parevano meno logiche. Ai chioschi, dove si prendeva da bere, tutti usavano lo stesso bicchiere, senza mai lavarlo. Ne rimasi schifato.
Comprai molte spille, due per tipo, così da poterne regalare una diversa ad ognuno dei miei amici e tenerne la copia per me. Ricordo che a Mosca spesi molti soldi, era cara: una telefonata a mia madre costò uno sproposito!

Interessante è il commento politico e la visione di mio padre, filosovietico, che riporto. Nasce da una domanda: Antonio, cos’è la libertà? Quando hai il lavoro, la casa, studi e ti curano all’ospedale. Lì sei libero, il resto sono chiacchiere.
Per lui quello era il metro di giudizio per identificare la libertà. L’Urss queste cose le garantiva. Qui non sei libero. La democrazia è il modo migliore per vivere in assoluto, anche rispetto ad un paese socialista, se hai i soldi. Se ha i soldi sei un uomo libero, sennò conti meno di niente. Quindi la libertà nel capitalismo è per pochi, nel socialismo è per tutti. Lascia stare le cazzate sulla libertà di stampa, sulla libertà di viaggiare…perché, in Europa tutti possiamo viaggiare? Certo. Ma chi viaggia? Tutti ci possiamo curare? Certo. Ma chi è che si cura. Tutti possiamo studiare? Certo. Ma chi è che studia? Questo è il senso della libertà nella difesa di mio padre dell’Urss e del socialismo reale.

lunedì 6 aprile 2009

6° puntata - Antonio - parte 1/2

Il primo soggiorno di Antonio in Unione Sovietica risale al 1980. Riconosco al padre il merito di averlo saputo coinvolgere nel suo personale sforzo di comprensione della realtà.


Il viaggio del 1980 fu un'esperienza indimenticabile. Avevo solo dodici anni, ma conservo lucidi ricordi, anche se influenzati delle tendenze politiche di mio papà. Lui amava viaggiare, aveva già visitato gli Stati Uniti con mia madre. Non ricordo il motivo della scelta di questa meta così suggestiva. Probabilmente fu spinto dalla curiosità.
Era il periodo che precedeva le Olimpiadi, infatti ci furono consegnati diversi gadget nel corso della vacanza.
Il mio pensiero non può che andare al volo, il primo per me. Viaggiammo con Aeroflot. Ne fui entusiasta! Giunti a Mosca, fummo sottoposti a un severo controllo dei bagagli. Ci chiesero di aprire le valige per poterle ispezionare. Mio padre aveva, tra i vari giornali, una rivista che si collocava a sinistra nel panorama editoriale italiano e il poliziotto, nel vederla, non nascose un sorriso di compiacimento.
Era un tour organizzato e ci spostavamo in gruppo. La guida, una bella signora moscovita bruna e con gli occhi scuri, ci prese in consegna. In albergo si mangiava malissimo, la colazione era costituita da una zuppa di salsicce. Trovare da bere era un'impresa. L’acqua aveva un sapore strano. Un giorno chiesi della coca-cola e mi portarono una strana bibita tipo tamarindo.
Era proibito allontanarsi per conto proprio, ma io e mio padre una mattina ci alzammo prestissimo e ci avventurammo per Mosca. Entrammo in una panetteria dove, a gesti, riuscimmo ad intenderci col commesso e pagammo con una moneta italiana da 200 lire. Mio padre per strada continuava a ripetere “Guarda qua! Guarda là!”. Notammo una fila incredibile e ci avvicinammo per capirne l'origine. Era un’edicola: tutti in coda per comprare il giornale! Più tardi, in una macelleria, mi stupii del fatto che usassero proprio la carta di giornale per preparare i pacchetti di carne da portare via.
La bellezza della metropolitana mi sconvolse! Nel magnifico Museo della Rivoluzione rimasi come incantato ad osservare un plastico che mostrava la presa del Palazzo d’Inverno... le statuette e i soldatini si muovevano. Potei ammirare scarpe e vestiti dell’epoca.
Assistemmo ad uno spettacolo al Bolshoi. Tutti i presenti erano elegantissimi e il loro contegno esprimeva solennità mista a rispetto per il luogo.
Mia sorella, in visita ad una chiesa, si presentò in pantaloncini e la guardia all’entrata del tempio le vietò l'ingresso. Papà avrebbe voluto entrare al mausoleo di Lenin, ma non ci fu verso: la coda era infinita. Fece il cambio nero. Era proibitissimo, ma si poteva trovare l' “uomo giusto” anche in metropolitana. Mia mamma conserva ancora un quadro che rappresenta una piccola chiesa della Piazza Rossa, quella bianca con le cupole d’oro. Il pittore che ci vendette il dipinto lo incartò con fretta e circospezione a causa del compromettente soggetto dell’opera.

Ci aspettava Leningrado. Viaggio memorabile, in treno... portavano il tè col carrellino, viaggio strano e lungo. Leningrado ci accolse in tutto il suo splendore. Visitammo l’Ermitage, museo enorme e stancante, e la residenza degli Zar, costruita per rivaleggiare con Versailles, con le sue fontane di giochi d’acqua bellissimi. Mia mamma e mia sorella comprarono diversi dischi di musica classica, da vere appassionate. L'hotel sorgeva su un'isola. Dopo un certo orario non era possibile lasciarla perché si alzava il ponte levatoio. Il meccanismo consentiva il passaggio delle navi. Percorremmo un tratto della Neva in aliscafo ed ebbi l’onore di salire sull’Incrociatore Aurora con due serissimi marinai di sentinella. Mia madre acquistò per me la maglietta tipica dei marinai, bianca e azzurra.

Tornammo a Mosca in aereo.
Per la capitale non si vedeva polizia in giro… mai fidarsi delle apparenze! Ecco ciò che accadde. Sulla riva della Moscova stazionavano alcune papere. Io cominciai a tirare sassi ai volatili, per gioco... spuntarono due poliziotti dal nulla per rimproverarmi! Mi spaventai parecchio.
A Mosca regnava un traffico allucinante: tre corsie in un senso, tre corsie nel senso opposto. Io, mia mamma e mia sorella tentammo di attraversare un vialone di questo tipo, senza usare il sottopassaggio. Sfiorammo appena la strada col piede: uscirono quattro arrabbiatissimi poliziotti, chissà da dove, gridando probabilmente che l’attraversamento era vietato. In entrambi i casi la stranezza fu che fino ad un secondo prima non si vedeva un poliziotto nel raggio di 30 chilometri. Tirata la pietra e messo giù il piede... guardie dappertutto.
Vidi i veterani dell’Afghanistan, tanti giovani, rispettati dai concittadini, che portavano la divisa zeppa di distintivi insieme agli anziani in borghese, anch'essi a spasso con le medaglie di una vita in bella mostra. La gente in giro era cordiale. Una città unica!
Sono cose che ricordo bene anche se ci ho messo del tempo per comprenderne a fondo il significato. Con i ricordi hai una fotografia delle situazioni che capirai col tempo.
Per spirito di sperimentazione, una notte presi il termometro della camera dell’hotel e lo misi sul balcone. La mattina seguente lo trovai rotto per il forte calo della temperatura!
Durante la lezione di geografia di una prof sicuramente poco comunista (o poco simpatizzante ogni volta che si parlava dell’Urss) sentii predicare “in Urss non c’è questo, non c’è quello… non ci sono le macchine...” e io, beato, con tutto il gusto proprio di un bambino, alzai la mano e le dissi “prof, non è assolutamente vero che non ci sono macchine, io sono appena tornato da Mosca e Le assicuro che c’è un traffico della Madonna!”. Lei rimase di sasso, sputtanata davanti all'intera classe.
continua...

giovedì 2 aprile 2009

5° puntata - Davide - parte 2/2

In Cecoslovacchia feci amicizia con il giovane ungherese vincitore della mia gara (“200 dorso”). Io mi classificai oltre il decimo posto. Bisogna tener presente che per noi italiani quello invernale non era il periodo migliore. A dicembre si “caricava”. Le gare importanti si svolgevano a marzo, giugno e luglio. Per questa ragione, e per il fatto che i “comunisti” erano nettamente più forti di noi, l’ungherese trionfò nei “200 dorso”. Mi complimentai con lui e gli consegnai una bottiglia di Campari che mi ero portato dall’Italia. Divenne mio amico, per sempre. Al vincitore della gara toccava un trofeo in cristallo di Boemia. Lui mi obbligò ad accettarlo come contropartita. Mi arresi solo perché non volevo offenderlo. Disse che avrebbe bevuto la bottiglia insieme ai compagni dell’Hotel Mosca.
Tutte le sere incontravamo ragazzi stranieri nei corridoi dell’hotel, magari per giocare con la pallina a calcetto. La loro attenzione era captata da varie cose, per esempio dagli occhialetti della “Diana”, dalle tute, dalle magliette, ma non dai costumi (erano meglio i loro). Gli occhialetti della Diana erano perfetti per nuotare, scurissimi, neri, con la spugna tutt’intorno, piccolini, comodissimi: in Italia erano comuni, mentre ad Est non si trovavano e li cedevamo volentieri.
Un mio compagno a Berlino fu protagonista di un baratto memorabile: tuta della nazionale italiana di nuoto in cambio di impermeabile “Adidas” azzurro con le tre tipiche bande bianche e grande scritta “DDR” dietro la schiena, foderato con pelo all’interno, bellissimo! Adidas era sponsor dei tedeschi.
Il nostro hotel di Berlino ospitava gruppi di lavoratori vietnamiti. Lavoravano nell’industria pesante per imparare il mestiere. Bastò incrociarli un paio di volte in albergo perché cominciassero a chiederci di tutto: vestiti, calze, scarpe, tute. Loro offrivano in cambio le loro cose. I nostri vestiti ad Est erano sempre molto ambiti.
La gente poneva domande sull’Italia, sul mare, sul cibo (sapevano che si mangiava bene), sulle città, sui monumenti... l’italiano “tirava”.
Alla fine delle gare tutti i ragazzi cenavano nel medesimo ristorante. Si trovavano tavolate di cechi, ungheresi svedesi e russi. Proprio un russo, dopo aver ottenuto i miei occhialetti, mi omaggiò di un cucchiaio in legno lavorato e dipinto a mano. Non c’era verso di cedere qualcosa senza contropartita. Per comunicare parlavamo inglese. Erano tutti nuotatori di altissimo livello, viaggiavano già all’estero. L’ungherese Tamàs Deutsch (bronzo ai mondiali, argento agli europei, fonte Wikipedia) e il delfinista cecoslovacco Marcel Gery (bronzo agli europei, fonte Wikipedia ) parteciparono più tardi alle Olimpiadi di Seul del 1988.
Girava voce che le donne fossero pompate. Erano grosse e poco femminili. Avevano muscoli dorsali che quasi spaccavano i costumi!
Gli atleti dell’Est dominavano negli sport individuali (specialmente le femmine). Quelli venuti a gareggiare con noi erano tutti molto preparati. Li osservavo in azione e non vedevo mai un movimento fuori posto. Tamàs Deutsch nuotava a dorso con una acquaticità spaventosa e – non esagero - sembrava che il corpo uscisse dall’acqua, tale era la spinta prodotta da braccia e gambe grazie alla perfetta applicazione della tecnica. Però si facevano un bel mazzo, più di quanto non facessi io. Per loro andar forte era un incentivo, perché andar forte significava poter viaggiare all’estero.

Lo shopping era triste, scaffali vuoti, poca scelta. Ma c’erano anche cose belle. Nell’83, durante il soggiorno a Magdeburgo, acquistai come regalo per mia sorella un grande pupazzo-panda. Il giorno del ritorno, in aeroporto, gli zelanti doganieri tedeschi lo stavano per squarciare, ma fortunatamente cambiarono idea prima di rovinarlo, così il panda poté salire incolume sul mio volo Interflug. Mia sorella lo tenne con sé per 15 anni, finché non si ruppe.
In giro si potevano scorgere manifesti pubblicitari con scritte, magari affiancate da un marchio, ma senza modelle o modelli, eccetto che per la pubblicità della Trabant.

Mangiavamo salamini pepati, i "cevapcici". La birra era buonissima. A Magdeburgo ottenemmo il permesso di trascorrere un’intera serata in birreria. Il cameriere rimase al nostro servizio per tutto il tempo e ci fece un sacco di domande: c’era tanta gente, ma lui badava solo a noi. Era l’ultima sera e lasciammo una lauta mancia, soldi che non potevamo comunque riportare a casa.
Alla discoteca dell’albergo Mosca di Gottwaldov, frequentata per lo più da ricchi russi e occidentali, feci la conoscenza di un ragazzo bergamasco che si sarebbe sposato tre giorni più tardi con una cecoslovacca. I suoi parenti erano appena giunti dall’Italia, dove era previsto un matrimonio bis con la bella fidanzata. Sicuramente per lei quello era un modo di andare via. Ai giovani doveva star stretto quel sistema. Mi dicevano che in un mondo pre-impostato per loro non c’era futuro. Avevano tutto l’essenziale, una casa, una macchina, un lavoro, le medicine, ma non potevano scegliere e quando c’era scelta, questa era limitatissima. Anche per banalità come, ad esempio, “il colore della macchina” bisognava accontentarsi e tenersi quello che arrivava: se c’era azzurra, si prendeva azzurra.
Vidi donne belle e donne brutte: in comune avevano la scarsa propensione alla depilazione delle gambe, anche quelle belle! La guida di Berlino era molto carina, ma aveva certi peli che…
Rimasi impressionato dallo stato in cui versavano le mani delle signore di una certa età: mani devastate e unghie sporche, mani di donne gonfiate da un’alimentazione sbilanciata, forse per il gran freddo. Il freddo determinava molte cose. A Gottwaldov una volta trovammo la neve alta un metro e un freddo tremendo… non si riuscivano a tenere i denti fermi. In hotel, al contrario, c’era un caldo incredibile… tanto da dover lasciare le finestre aperte!