Presentazione del blog

Dall’intervista di Antonio (Mosca 1980), parlando del suo rientro in Italia:

<… Durante la lezione di geografia di una prof sicuramente poco comunista (o poco simpatizzante ogni volta che si parlava dell’Urss) sentii predicare “in Urss non c’è questo, non c’è quello… non ci sono le macchine...” e io, beato, con tutto il gusto proprio di un bambino, alzai la mano e le dissi “prof, non è assolutamente vero che non ci sono macchine, io sono appena tornato da Mosca e Le assicuro che c’è un traffico della Madonna!”. Lei rimase di sasso...>

Non cercavo soltanto un libro che descrivesse la vita quotidiana dei lavoratori nei paesi socialisti. Per me era importante l’identità dello scrittore, la sua professione.

Storico? Giornalista? Politico? Ambasciatore? No, grazie. L’autore del libro che non sono mai riuscito a trovare sarebbe dovuto essere uno come tanti, magari un operaio/a, un impiegato/a, una persona qualunque, un tipo pulito. Avete mai provato a prendere in mano i testi in commercio sull’argomento? Vi siete resi conto che sembrano fotocopiati? E continuano a sfornarne di nuovi! Vi è mai capitato di soffermarvi sulle risposte dei principali quotidiani nazionali ai quesiti dei lettori interessati alla storia del socialismo reale? I commenti sono preconfezionati! Sono sempre gli stessi! Superficiali, piatti, decontestualizzati, buoni per il “consumatore di storia” massificato. Non parliamo dei documentari. Diamine! La storia è una cosa seria. E’ la memoria! Non bisognerebbe neanche scriverne sui giornali!

Ciò che mi fa salire la pressione è il revisionismo. Passa il tempo, i ricordi sbiadiscono e una cricca di farabutti si sente libera di stravolgere il corso degli eventi, ribaltare il quadro delle responsabilità e di combinare altre porcherie che riescono tanto bene agli scrittori più in voga. Tale è l’accanimento… vien da pensare che il Patto di Varsavia esista ancora da qualche parte!

Un giorno mi sono detto: io non mi fido, il libro lo scrivo io.

Ho iniziato a rintracciare gente che si fosse recata nei paesi socialisti europei prima della loro conversione all’economia di mercato. Ho intervistato quattordici persone esterne ai giochi di potere e libere da qualsiasi condizionamento (eccezion fatta per le intime convinzioni proprie di ciascun individuo che non mi sento di classificare tra i condizionamenti). I loro occhi sono tornati alle cose belle e a quelle brutte regalandomi un punto di vista diverso da quello dell’intellettuale o dell’inviato televisivo. Grazie ad alcuni libri di economia usciti nel periodo 1960-1990, ho tentato di rispondere ai quesiti sorti nel corso delle registrazioni.

http://viaggipianificati.blogspot.com/ è l’indirizzo web dove è possibile leggere le straordinarie avventure a puntate di italiani alla scoperta del vero socialismo e delle cose di tutti i giorni. A registrazione avvenuta, è possibile lasciare un commento.

Visitando il blog potrete idealmente gustarvi un’ottima birretta di fabbricazione “democratico-tedesca” seduti in un bel giardino della periferia di Dresda, nuotare nella corsia accanto a quella occupata da un “futuro” campione olimpico ungherese, discutere coi meccanici cecoslovacchi, e… molto altro. Buon divertimento!

Luca Del Grosso
lu.delgrosso@gmail.com


Il libro "Viaggi Pianificati" è in vendita ai seguenti indirizzi:

http://www.amazon.it/Pianificati-Escursioni-socialismo-europeo-sovietico/dp/1326094807/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1461691231&sr=8-1&keywords=viaggi+pianificati

http://www.lulu.com/shop/luca-del-grosso/viaggi-pianificati/paperback/product-21997179.html

in formato cartaceo o "file download" .





giovedì 18 giugno 2009

Il blog va in vacanza!!!

Ciao Amici!
Cari Lettori!

La pubblicazione delle interviste riprenderà dal 17 settembre.
Buona estate e buone vacanze a tutti, meglio se pianificate!

Luca Del Grosso

lunedì 15 giugno 2009

26° puntata - Cecilia - parte 2/2

Nel 1990, accompagnata da un’amica che collaborava come me col Teatro Donizetti di Bergamo, mi recai a Tver, cittadina situata a 150 km da Mosca. Mi occupavo delle riprese. Facevamo parte di una delegazione composta da bergamaschi dello spettacolo, dell’artigianato e da rappresentanti della Camera di Commercio. L’obiettivo delle autorità italiane era l’instaurazione di costanti rapporti tra le due città. L’anno seguente alcuni rappresentanti di Tver avrebbero ricambiato la visita.
Fummo persino ospiti del console italiano in una villa tanto bella quanto blindata. Visitammo tutto il visitabile, la fabbrica delle ricamatrici che ricamavano le tovaglie, altri luoghi che interessavano gli operatori dell’artigianato e del commercio. A teatro era stato allestito uno spettacolo apposta per noi. Assistemmo ad un tipico balletto russo nella serata di gala.
A Mosca, all’arrivo, seppi che il mio bagaglio era stato perso. Per riuscire a recuperarlo dovetti percorrere il tragitto Mosca – Tver tre volte in tre giorni. Ci muovevamo con la traduttrice, che ci seguì anche in questa circostanza. Lo smarrimento del bagaglio costò ore di attesa in aeroporto. Era inverno. Che freddo! Tanta neve, strade dissestate, grande spaesamento. Alloggiavamo un po’ fuori Tver, in un albergo per turisti che non passavano certo da lì. Si trattava, più che altro, di un albergo per uomini d’affari e agenti di commercio, con un gran giro di prostitute. La notte c’era un casino micidiale! Colazione e cena si facevano in hotel. Per me, vegetariana, fu un disastro! Servivano formaggetti, minestroni di rapa e cavoli… era difficile capire dove c’era e dove non c’era la carne. Avevamo una serie di accompagnatori, tra cui un professore russo, che parlavano molto bene l’inglese e ci raccontavano un sacco di storie. Fu difficile trovare del cibo vegetale. D’altra parte, mi pesava il conseguente disagio arrecato a gente che abitualmente faceva fatica a mangiare bene. Gli accompagnatori russi erano felicissimi di passare la settimana con noi. Mangiavano in albergo. Per loro il menu era ricco e raffinato: cibo russo e pasti completi. Il professore, dopo aver compreso che ero vegetariana, appoggiò il capo sulla mia spalla, sconsolato. Mi sentii una merda. Loro si sarebbero mangiati le gambe del tavolo e io “la carne non la mangio!”. I russi a fine cena si portavano via spudoratamente tutto ciò che avanzava. Pacchettini, stagnola, sacchetti da casa… così spariva ogni briciola dal tavolo! A fine soggiorno i nostri accompagnatori ci fecero una sorpresa. Avevano organizzato una colletta per comprarci delle banane! La cosa più buona, più esotica che si potesse comprare! Per tutto il giorno, felici, ci avevano ripetuto “stasera ci sarà una sorpresa per voi”, pregustando il momento in cui ce le avrebbero consegnate. Una banana a testa! Quella sera, dopo un attimo di smarrimento, capimmo che la sorpresa era proprio quella. Mostrammo entusiasmo e tentammo di dividerle con loro, in quanto le banane erano contate.
Per tutte le visite di cortesia alle fabbriche (solitamente una al mattino ed una al pomeriggio) era previsto un rinfresco a base di dolcetti e “tverskaya”, una versione locale della vodka, un liquore color beige. Le merende e le colazioni di metà mattina erano a base di tverskaya. L’eventuale rifiuto avrebbe comportato una grandissima offesa. Vassoi di pasticcini e liquorino, che dovevi bere! La cena del console era stata devastante per quantità di portate e brindisi, infiniti: un brindisi agli amici di Bergamo, tutti in piedi e giù bicchierino, poi un brindisi agli amici di Tver, un brindisi a… che bevuta! Ci regalarono una bottiglia di tverskaya da portare in Italia, che io conservai senza metterci mano per due anni, nonostante la vodka mi piacesse molto. Era troppo pesante. Ogni sera venivano in hotel quelli del cambio nero, i tipi con i colbacchi dell’esercito e i Raketa. Spendemmo tutti i nostri soldi. Il mio Raketa si guastò molto presto. Purtroppo il mio orologiaio si rifiutò di effettuare la riparazione. Non era possibile. Feci delle riprese. Partecipammo ad una funzione ortodossa, per poi essere invitati a pranzo dal pope: grandi brindisi di tverskaya anche a casa sua. Nella chiesa, bellissima e buia, canti fantastici, riti suggestivi. Insomma, un trattamento super.
Tver non era una città di particolare bellezza, ma non dava l’impressione di essere povera. Era dignitosa. La gente non era certo vestita alla moda, il loro sembrava l’abbigliamento degli anni ‘60, signore truccatissime e permanente.
Giravamo per la città sempre sorvegliati a vista. Ci lasciarono una sola mattinata libera, per il resto ci si spostava sempre con pullman e traduttrice. Un giorno, fuori dall’albergo, mentre facevo alcune riprese, apparvero dei tizi nerboruti che misero le mani sulla telecamera, dicendo che non si poteva riprendere. Come ci spiegò poi la traduttrice, anche se non si trattava di edifici con sedi di esercito o polizia o del governo non si potevano fare riprese non autorizzate, neanche al paesaggio. Gita a Mosca, ai classici posti. Sotto la neve passeggiavano coppie di sposi che si facevano fotografare sulla Piazza Rossa, davanti al Mausoleo. Ai Gum non c’era niente, reparto dopo reparto, tutto vuoto, come se fosse in chiusura. C’era uno che aveva un mucchio di pantaloni, identici, unico modello. Un altro che vendeva cerniere e cose da cucito, un altro con cappelli tutti uguali. Il palazzo era stupendo, ma non c’era nulla da comprare. Ci portarono all’Intershop, dove si potevano trovare le Marlboro. Ci volevano andare soprattutto gli accompagnatori, per fare acquisti straordinari. Ci chiesero di cambiare soldi con loro per poter comprare in dollari. Ci portarono due volte, insistendo. Ma non c’era paragone col supermercato di Berlino Est. A Mosca mi colpirono le meravigliose librerie e i negozi di giocattoli in legno, veramente straordinari, che qui in Italia si sarebbero potuti rivendere a carissimo prezzo: cavallini di legno, costruzioni in legno... Le librerie vendevano testi con fantastiche illustrazioni per bambini. Erano immense… libri curati, di qualità. C’erano reparti infiniti. Comprammo qualche libro per bambini e album di manifesti a tema: ecologia, pace, Lenin …

giovedì 11 giugno 2009

25° puntata - Cecilia - parte 1/2

Nell’agosto del 1986 Cecilia si trovava a Berlino Ovest con due amiche, punk come lei, per studiare la lingua tedesca. Era d’obbligo la gita a Berlino Est.

Provavamo un certo timore al pensiero di andare a Berlino Est. Premetto che per arrivare a Berlino Ovest, in treno, dall’Italia, serviva il passaporto e le autorità avevano impiegato parecchio tempo a rilasciarmelo. Quindi c’era un po’ di paranoia. Inoltre, alcuni amici punk ci dissero che, per gente vestita come noi, potevano sorgere problemi nei transiti da e per la zona Est. Ci consigliarono di evitare il Check-point Charlie, suggerendo di passare dalla Friedrichstrasse.
In entrata nessun problema. Vidi grandi mucchi di macerie. I maestosi palazzi dell’Est, le case e i monumenti erano ancora distrutti. Il solo edificio davvero in ordine era lo sfolgorante Palast der Republik (il palazzo del Parlamento), completamente ricoperto di specchi. Ospitava, tra le altre cose, una sala da ballo, un cinema e un ristorante. Era un luogo di ritrovo e di divertimento. Lampadari enormi, sfavillanti… stupendo! I monumenti circostanti si riflettevano sugli specchi. La facciata principale era dominata dal simbolone del “compasso e martello”. In giro per il centro, a noi noto per la Alexander Platz, la fontana con gli zampilli, Karl Marx Allee e i mosaici con le figure dei lavoratori, tentavamo di scovare le cose che non andavano. Il nostro spirito era critico nei riguardi dell’Est.
Dovetti impegnarmi per decidere come spendere quei venticinque marchi orientali del cavolo che portavo con me! Fu un’impresa! Non sapevo come disfarmene, non c’era niente di interessante in vendita. Per cui si destinava tutto ai dischi o ai prodotti del grosso supermercato a più piani della Alexander Platz, tipo Rinascente, che aveva i classici reparti di abbigliamento, anche per bambini, e, nell’interrato, gli alimentari. Per ore studiammo i prodotti, le etichette, non riuscendo però ad apprezzare le merci nel modo appropriato, ad eccezione di quelle del reparto dischi, che si distingueva per un’importante sezione di musica classica, e del settore cartoleria, ricco di prodotti in carta riciclata che in Italia sarebbero costati moltissimo. Da noi si trovavano di rado, mentre lì costituirono il nostro acquisto più rilevante… quaderni in vari formati con la copertina verde, tutti con lo stesso logo di produzione. Acquistai la bandiera, un disco del Coro dell’Armata Rossa e poi… giù nel supermercato alimentare, che era uno spettacolo… vedevi delle robe! Per il latte usavano un solo tipo di bottiglia, identico per tutte le qualità di latte! Ogni cosa era confezionata in sacchetti di carta, non c’erano sacchetti di plastica! Pochissima scelta… un solo tipo di farina, un solo tipo di zucchero, un solo tipo di biscotti. In attesa di determinati (preannunciati) approvvigionamenti, la gente gironzolava all’interno del supermercato. La cioccolata era pessima, non era che un suo surrogato. Alle casse vedevi carrelli piccolissimi e carta da pacchi per avvolgere gli acquisti. Che paura per il controllo all’uscita dall’Est! A Berlino Est c’erano i punk, ma non erano visibili. Noi, invece, davamo nell’occhio. La perquisizione ci preoccupava. Al signore straniero davanti a noi rivoltarono abiti e borsa, lo spogliarono… quei VoPos sempre incazzati, coi musi durissimi, antipatici, con la fama dei cafoni. I marchi orientali non si potevano portare fuori e noi avevamo paura che ci trovassero addosso i pfennig rimasti. Non eravamo tranquille. Che paranoia! Il VoPos ci fece aprire gli zaini, ma si sciolse in un sorriso fino alle orecchie nello scorgere il disco dell’Armata Rossa. Visto il disco, decise di lasciarci andare. Quell’anno, in un’occasione, presi la metropolitana all’Ovest. Ricordo i passaggi del treno nella zona orientale in stazioni chiuse. Il convoglio rallentava in prossimità delle stazioni abbandonate, i cui rivestimenti erano costituiti da mattonelle sporche, impolverate. Stazioni vuote, illuminate dai neon… tristezza infinita. Era brutto attraversare quei luoghi. L’anno successivo (1987), durante un giro in centro a Berlino Est, uscimmo dai percorsi abituali e ci perdemmo. Non c’erano più negozi né punti di riferimento. Lasciando il centro, ci trovammo nella desolazione più totale. C’era ancora qualche vecchio locale, ma non aiutava. Nuovamente, grossi acquisti di libri, dischi, che non costavano niente, e un tamburo di latta. Avevo visto il film e sapevo di poterlo trovare solo nei negozi dell’Est… rosso e bianco, con la plastica al posto della pelle. Per mio papà comprai un disco a caso, era di un compositore dell’Est, Hans Eisler (che lavorava Kurt Weil) e aveva musicato tante cose di Brecht. Vi trovai all’interno il “Canto del Fronte Unito dei Lavoratori”. Insomma, ho bei ricordi di shopping! Tornai ancora a Berlino Est in inverno, tra il 1987 e 1988. Faceva molto freddo. Evitai di girare per le strade. Finalmente riuscii a visitare il Museo di Pergamo e altre interessanti attrattive, tra cui una galleria con quadri d’arte moderna. I guardiani del museo d’arte moderna erano più che pensionati, vecchietti e vecchiette, seduti sulla seggiolina, a controllare il viavai. Quella volta, nell’accompagnarci a Berlino Est, il fidanzato della mia amica ebbe non pochi problemi. Era il tipico italiano, nero di capelli, ricciuto e barbuto. Fu trattenuto per alcuni interminabili istanti perché scambiato per un turco!
continua...

lunedì 8 giugno 2009

24° puntata - Mariangela - parte 6/6

Seguirono quattro giorni a Mosca. In principio, a causa dei continui spostamenti, sembravamo degli ubriaconi. Stare a Mosca era… come essere tornati a casa! Vidi le opere della Galleria Tret’jakov, ma non entrai nel mausoleo di Lenin. Preferii aspettare fuori e gustarmi quella meraviglia del cambio della guardia col passo dell’oca… Mosca fu: GUM, Raketa, cambio, pochi rapporti con le persone. C’era già molto turismo sulla Piazza Rossa e sull’Arbat (effetto Gorbaciov). Che strana impressione trovare le persone anziane all’ingresso delle metropolitane intente a chiedere la carità. Tutto era ancora in piedi! Le signore vendevano le cose di casa… le vidi lì per la prima volta nella mia vita. Parlammo con un taxista, uno di quelli che dicevano che così non si poteva andare avanti per molto, che doveva succedere qualcosa, che non ci rendevamo conto, che Gorbaciov era una persona adatta al contatto con l’estero e che somigliava ai nostri uomini politici, che era per questo che ci piaceva, che non somigliava a nessuno dei loro uomini politici precedenti, quelli non andavano bene ma neanche questo andava bene… Parlava di Chernobyl, chiedeva se ne avessimo sentito parlare, chiedeva cosa ne pensassimo. Più ci avvicinavamo ai problemi dell’URSS, più la conoscevamo e più ci accorgevamo che non ci stavamo capendo niente. Gorbaciov nella nostra visione era una cosa, nella loro visione era un’altra persona. Ci fece l’esempio di Chernobyl.
Trovammo sempre qualcuno disponibile a darci indicazioni o informazioni, non accadde mai che qualcuno ci dicesse “non ho tempo, non ho voglia”, anche se stava lavorando. Erano vestiti da Est. Non c’erano contaminazioni. Le scarpe erano brutte. Le scarpe erano una di quelle merci che non c’erano mai, merci da coda. Invece, i pattini da ghiaccio c’erano dappertutto, anche in Uzbekistan. La città non mi parve trascurata, solo un po’ malinconica.

Visitai Praga molto prima dell’URSS. Vi arrivai nel 1985 con due amiche, in treno, via Vienna. Trovammo un albergo per trascorrervi il Capodanno. Un freddo… bellissimo, con la neve. Fuori era pieno di gente. Passammo il Capodanno in un dopolavoro, in una tipica sala praghese dell’Ottocento, con divani, velluto, orchestrina un po’ triste, la champagnaskaja (avevano prodotti russi), signori di cinquant’anni che ci invitavano a ballare facendo l’occhiolino, divertente… fuori c’era una montagna di neve!
A Praga non ci fu modo di relazionarsi, erano diversi dai russi, ma i signori ballerini furono molto gentili e corretti.

Dormimmo in due alberghi. Tre notti nel primo, molto bello, il resto del soggiorno nel secondo. La stanza, caldissima, era grande due volte casa mia. Andavamo a mangiare nelle Kavarna, sempre piene di gente del luogo. Una volta, arrivando tardi, trovammo la cucina chiusa (chiudevano alle ventuno e trenta) e optammo per una birreria che aveva delle cose un po’ raffazzonate. Ci ronzavano intorno gruppi di maschietti italiani. Purtroppo non imbroccammo mai con i cechi, che erano molto carini. Prima di ripartire, conoscemmo un ragazzo di Modena che era venuto a trovare lo zio comunista. Il buon uomo, dopo la guerra di liberazione, aveva pensato che, se il comunismo non si poteva far arrivare in Italia, vi ci sarebbe andato lui. Giunto in Cecoslovacchia, si era sposato e non era più tornato. Domandammo al giovane dei pensieri di suo zio. Lo zio diceva di essere un po’ deluso per com’era andata.

giovedì 4 giugno 2009

Edilizia Socialista - Kiev, periferia

Video by Gilles Serge Toffoletto (2009)

23° puntata - Mariangela - parte 5/6

Partimmo per l’Uzbekistan. Taskent, città poco interessante, rasa al suolo dal terremoto del 1966 e completamente ricostruita, conserva un monumento, un grande cubo saettato spaccato in due, a memoria dell’evento disastroso. Dormivamo al decimo piano di un mastodontico albergo, un'altissima torre. Affacciandosi alla finestra, tenendo come riferimento gli altri palazzi, si poteva percepire chiaramente un’oscillazione. L’impressione fu grande. Barbara diceva che lì si muoveva sempre tutto e che erano abituati ai terremoti.
Da un punto di vista monumentale e architettonico non c’era molto da vedere. Bello il clima, 40 gradi ventilati! Colori violenti, piante, fontane dappertutto, bambini dentro le fontane, gente in giro. Visitammo un bruttissimo monumento ai caduti, dove gli sposi andavano a fare le foto. Sul piccolo aereo ad elica, che da Taskent portava a Samarcanda, viaggiammo coi meloni, meloni che andavano da tutte le parti. Sotto di noi si stendeva un deserto brutto, piatto, fatto di terra e cespugli secchi. Samarcanda doveva sembrare un miraggio per chi vi si recava a piedi, o con gli animali, nel passato. Alla fine del deserto c’è una cosa blu: è Samarcanda! Fantastica la grande piazza delle tre medressa colorate di blu turchese! Nel primo cortile di una di esse mi lasciarono entrare, ma non oltre… sono una donna.
Samarcanda era speciale… città bellissima che, all’epoca del viaggio, cadeva un po’ a pezzi… la stavano restaurando. Dopo la visita all’osservatorio astronomico di Ulughbek e al solito museo folk, ci separammo dal gruppo per gustare l’atmosfera del mercato tipicamente orientale. Lunghissimi banchi, montagne di verdure, colori pazzeschi, il “testaio” che vendeva teste di animale coperte dalle mosche, stoffe tradizionali che tutti indossavano, pantaloni fatti a strisce di tutti i colori. Sergio e un altro ragazzo portavano i classici bermuda. Gli si avvicinò una signora uzbeka. Preso Sergio sotto braccio, lo condusse fino ad un banco dove vendevano pantaloni lunghi. Il messaggio era: sei un uomo, non devi portare i calzoncini corti! I ragazzi si comprarono dei pantaloni lunghi e li indossarono subito. Lei era tutta contenta. Ci chiese da dove venivamo… “Ah l’Italia!”. Sembrava di essere fuori dal mondo. Cosa avevano di strano le persone? Avevano gli occhi azzurri su una faccia mongola!
I viaggi tradizionali non prevedevano la visita del mercato. Comprai degli orecchini molto carini, contrattando un pochino. Nessuno ci chiese niente, né Raketa, né cambio. Ci chiedevano dell’Italia, di Firenze, qualcuno sapeva cosa c’era a Firenze, erano molto incuriositi dal fatto che fossimo in mezzo al mercato da soli. Comprammo delle stoffe facendo un po’ di scena, un po’ di contrattazione da loro tanto gradita. Io detesto contrattare, ma, per stare al gioco, contrattavo anche sul mezzo rublo per poi comprare al prezzo che volevano. Vendevano cose bellissime.
La sera ci fu uno spettacolo di luci e suoni in piazza. Raccontavano, nella loro lingua, dell’epopea di Tamerlano.
continua...

lunedì 1 giugno 2009

22° puntata - Mariangela - parte 4/6

Dall’Armenia fummo catapultati in Georgia, a Tbilisi, città circondata da montagne e colline, molto verde, ricchissima d’acqua (un fiume l’attraversa), tripudio di meloni, tutti i frutti, case con balconi di legno e montanti decorati, bellissima! Anche lì c’era casino, ma senza carri armati. Loro erano degli squinternati. In ogni città era previsto lo shopping nei GUM. I GUM di Leningrado e Mosca erano di una tristezza infinita, con pochissima roba… ti chiedevi “ma qui cosa viene a fare la gente, non c’è niente!”. In Georgia, così come in Uzbekistan e a Jerevan, c’era tutto. Per esempio, a Tbilisi mi informai sulla possibilità di acquistare colori, acquerelli, cartoleria, strumenti di precisione, lenti e altri beni disponibili. Comprai un orologio. All’epoca ero vegetariana, fu proprio dura. Ogni tanto servivano una zuppa con “saponette” galleggianti, cioè pezzi di carne bianca, grassissima. Io mangiavo le guarnizioni di tutti, erbe e pomodori. Dopo la camminata in città, durante una sosta ai GUM, chiedemmo ad una commessa se ci fosse un bagno. Ricevute le indicazioni, ci avviammo. Nel nostro incerto girovagare, notammo una signora che, mentre parlavamo con la commessa, si trovava con noi al banco. Ci seguiva osservandoci. All’improvviso decise di avvicinarsi e, in un inglese perfetto, disse che le era parso di capire che avevamo bisogno di aiuto. Ci accompagnò alla toilette, anche perché le parole scritte in georgiano erano indecifrabili. Con aria imbarazzata spiegò che le dispiaceva di vederci in una situazione tanto strana. Pensai che si riferisse allo sporco, ma mi sbagliavo. Nel bagno delle donne c’erano i lavandini e, in fondo, i servizi veri e propri, senza porte, senza possibilità di chiudersi dentro. Qualcuno aveva appeso, per maggiore protezione, delle tende molli fatte di leggeri cordoncini che oscillavano distanziatissimi. Tutto aperto! La signora disse che capiva il mio imbarazzo. Lei uscì. Aspettai il mio turno, mi feci forza e… fu imbarazzante. La gentile signora, in realtà, aveva uno scopo. Una volta uscita, cominciò a parlare con Sergio, il mio compagno di viaggio, che aspettava fuori. Si presentò dicendogli di essere una matematica sposata con un accademico della scienza e che le sarebbe piaciuto portarci a casa sua per parlare. Voleva avere contatti con l’estero. Era travolgente e gentile fino all’eccesso. Noi provammo a spiegarle che facevamo parte di un gruppo, con tempi contingentati, che dovevamo rientrare in hotel con gli altri, che il giorno dopo saremmo ripartiti, che non eravamo in giro per conto nostro. Lei insisté. Voleva offrirci da bere e da mangiare. Fissammo quindi un appuntamento. Ci sarebbero venuti a prendere ai GUM tre ore più tardi. Sembrava una donna interessante. In appena due ore aveva preparato una tavolata di cibo impressionante, meraviglioso e buonissimo. Ci pregarono di assaggiare tutto. Incontrammo suo marito e la di lei sorella, che era un fisico. Era una famiglia di scienziati. La signora aveva smesso di lavorare all’Accademia delle Scienze in seguito alla nascita dei suoi due bambini. Smaniavano per due motivi: per chiacchierare e per chiedere se noi, dall’Italia, potevamo scrivere per fargli ottenere un visto turistico. Fu Sergio a conversare su questo argomento. Lui si era laureato in ingegneria, lavorava all’Università, di conseguenza poteva toccare temi a loro più familiari. Sergio disse che quello che poteva fare al suo ritorno era chiedere in Università, o in Ambasciata, informazioni sulla procedura. Loro erano molto preparati e dicevano che doveva fare questo e quello. Sergio ribatté che chiedere non costava nulla. Il marito veniva spesso in Europa Occidentale. Il visto sarebbe servito più a lei, che desiderava seguirlo in un viaggio nel nostro Paese. Avevano modi molto cortesi, ma quando si passò a questa discussione i toni si accesero. Raccontavano della loro vita impossibile, del fatto che i georgiani volevano l’indipendenza da sempre e non si sentivano di appartenere all’Unione Sovietica. Volevano tornare ai tempi degli eroi nazionali del XVIII secolo! “Sicuramente,” dissero “in una nostra repubblica indipendente, per noi sarebbe possibile fare tutto quello che vogliamo, come fate voi in occidente”. Sergio provò a spiegare che le cose da noi non stavano così. Parlò del sistema socialista, che aveva livellato tutti e che garantiva una base alla collettività, che certamente non dava la possibilità di emergere più di tanto… si emergeva fino ad un certo punto, nel partito o in altri ambiti controllati. Tentava di fargli capire che da noi, se non “cresci”, puoi diventare uno “spiaccicato per la strada” che nessuno cura, senza nessuna tutela, cosa che da loro non poteva succedere. Cercava di bilanciare il loro esagerato ottimismo riguardo all’avvenire dell’occidente. Di sicuro, uno come il professore da noi avrebbe avuto un altissimo tenore di vita, neanche lontanamente paragonabile a quello della sua realtà quotidiana. Lui, che aveva viaggiato in Europa e in America, lo sapeva. Ad un tratto chiesero se eravamo comunisti e noi: “Sì certo! Comunisti italiani!”. Ci attaccarono: “Ma allora voi difendete…” eccetera, eccetera, la solita storia, “Stalin…”.
La cosa andò avanti. Assolvemmo il nostro compito. La signora riuscì ad accompagnare il marito in Italia.
continua...