Transitai da Mosca ormai ventenne, nel 1989, sulla rotta per il Sud America. Conobbi una ragazza ecuadoregna in hotel, anche lei di passaggio. In un certo senso ci fidanzammo. Nel corso di un appassionato bacio dentro i magazzini GUM, fummo richiamati da una signora russa. Voleva che interrompessimo il bacio perché non era consentito. Più tardi, mentre eravamo seduti sul pullman, una scocciatissima e determinatissima signora anziana ci ordinò di lasciarle il posto. Probabilmente era arrabbiata per il fatto che, per la nostra scarsa attenzione, si era vista costretta a chiedere ciò che le era dovuto e l'avevamo messa in una situazione imbarazzante.
Ero partito da Milano con un visto che mi avrebbe consentito di uscire dall’aeroporto di Mosca. Senza quel documento i due giorni di scalo tecnico li avrei dovuti trascorrere in sala d'attesa. Al ritorno per lasciare l'aeroporto bastò il visto dell’andata. Credo che ciò dipese dai grandi cambiamenti in corso in quei mesi (era il settembre 1989). All’andata alloggiai nell’albergo vicino all’aeroporto. Scrissi il nome dell’aeroporto, presi un bus e me ne andai a Mosca, con la ragazza dell’Ecuador. Metro, Piazza Rossa, all’avventura, con una cartina banalissima. Per rientrare chiedemmo indicazioni ai passanti mostrando il bigliettino. Quelli facevano certe facce come dire “ahhh, come cazzo fate a tornarci!”. Ci accompagnarono per prendere i mezzi giusti, gentilissimi. Scritte e lingua incomprensibili, disagi compensati dalla grande cortesia dei moscoviti. All’ingresso del metrò non c’era il tornello, almeno così sembrava. Volli provare! Passai senza biglietto e... tac! Blindato! Spuntava una sbarra! Lì pagavano tutti. Non come da noi. Se si passava senza pagare pensando “è libero”... tac! Usciva la barra. Non so dire se fosse un congegno installato in tutte le fermate o solo in quella particolare metropolitana, però mi sorprese, come del resto mi colpirono le lunghissime scale mobili. A Milano da un po’ di tempo proviamo a spiegare che sulla scala mobile si deve stare a destra, lì ci erano già arrivati. Educati nelle file, alle fermate dei pullman. Una cosa logica.
Altre cose parevano meno logiche. Ai chioschi, dove si prendeva da bere, tutti usavano lo stesso bicchiere, senza mai lavarlo. Ne rimasi schifato.
Comprai molte spille, due per tipo, così da poterne regalare una diversa ad ognuno dei miei amici e tenerne la copia per me. Ricordo che a Mosca spesi molti soldi, era cara: una telefonata a mia madre costò uno sproposito!
Interessante è il commento politico e la visione di mio padre, filosovietico, che riporto. Nasce da una domanda: Antonio, cos’è la libertà? Quando hai il lavoro, la casa, studi e ti curano all’ospedale. Lì sei libero, il resto sono chiacchiere.
Per lui quello era il metro di giudizio per identificare la libertà. L’Urss queste cose le garantiva. Qui non sei libero. La democrazia è il modo migliore per vivere in assoluto, anche rispetto ad un paese socialista, se hai i soldi. Se ha i soldi sei un uomo libero, sennò conti meno di niente. Quindi la libertà nel capitalismo è per pochi, nel socialismo è per tutti. Lascia stare le cazzate sulla libertà di stampa, sulla libertà di viaggiare…perché, in Europa tutti possiamo viaggiare? Certo. Ma chi viaggia? Tutti ci possiamo curare? Certo. Ma chi è che si cura. Tutti possiamo studiare? Certo. Ma chi è che studia? Questo è il senso della libertà nella difesa di mio padre dell’Urss e del socialismo reale.
giovedì 9 aprile 2009
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento