E' buffo rilevare come alcune delle più odiate peculiarità dei paesi ad economia pianificata possano essere facilmente assimilabili all'odierna società italiana. Anzi, per certi versi, date le premesse e il vantaggio indiscutibile accordato dall'adesione ad un sistema fondato sul libero mercato, nell'Italia del 2012 emergono dinamiche persino peggiori di certe manifestazioni che molti possono ricordare come tipiche del campo socialista.
Spunti per una riflessione in merito.
Un lavoratore italiano di trent'anni, oggi, nonostante l'impiego a tempo pieno, spesso si vede costretto a condividere l'appartamento con sconosciuti, in quanto impossibilitato a fronteggiare il "caro affitti". Ciò avveniva regolarmente in un'Urss devastata da due guerre mondiali ed una guerra civile. Non per i prezzi, ma per la mancanza di case. Da noi le case ci sono, ma sono mal distribuite e, per chi deve affittare, costano uno sproposito.
Un elettore italiano, oggi, non può scegliere i suoi rappresentanti in Parlamento. Nei paesi socialisti le liste erano preordinate e non si poteva votare per personaggi diversi da quelli graditi al partito. Situazione non molto diversa da quella italiana, vero?
Un operaio italiano del nostro secolo, nella maggioranza dei casi, avrà figli che non supereranno i suoi standard di vita. Nella migliore delle ipotesi saranno essi stessi operai o, dio sia lodato, soprattutto in Lombardia, impiegati. Perlomeno, nei paesi socialisti, il figlio di operai o di contadini aveva chance di arrivare in alto. I più fortunati raggiunsero addirittura l'apice della piramide: benefici della lotta di classe.
In Italia ci sono pochi lettori e, quei pochi, leggono i libri letti dalla maggioranza. Un lunedì del giugno 2004, dopo quasi dieci anni di mattinate trascorse in automobile, decisi di prendere la metropolitana per raggiungere il posto di lavoro. Salito a bordo, mi misi a curiosare sul contenuto delle letture dei miei compagni di viaggio. Accanto a me: codice da vinci. Mi chiesi: che sarà mai? Di fronte a me: codice da vinci. Pensai: toh, che coincidenza! Di lato, oltre le porte, sulle gambe di una bella impiegata giaceva un codice da vinci. Ehi! Fermi tutti! Hanno instaurato la dittatura e non mi hanno avvisato? A che serve dichiarare la libertà, se poi si opera per un suo continuo e scientifico condizionamento?
Nei paesi dell'Est certi libri non potevano esser venduti, né affittati in biblioteca. Erano semplicemente non disponibili o indesiderati. Un modo più diretto per non lasciar leggere ciò che la letteratura mondiale offriva. All'Est ciò accadeva per proteggere il cittadino dalle fuorvianti influenze della produzione capitalistica. Ad Ovest, tuttora, per guadagnarci e distrarre. Di fatto, in entrambi i casi, possiamo rilevare quanto sia pericoloso per uno stato lasciare che le persone crescano consapevoli delle possibilità di modificazione della realtà attraverso lo studio e la conoscenza delle scienze sociali ed economiche.
Era mia intenzione concludere parlando di coloro che siedono in senato o alla camera dei deputati e dei loro presunti meriti, dell'endemica corruzione, del rapporto tra il cittadino e la burocrazia, del sistema giudiziario in genere, dello stato disumano delle carceri e della condizione kafkiana di molti detenuti, della violenza e degli abusi delle autorità coperti da un sostanziale accordo politico tra i membri dei tre diversi poteri dello stato, del mancato adeguamento alle direttive internazionali delle leggi di tutela della persona (in Italia, in campo economico, siamo invece sempre molto solleciti a far fronte ai nostri obblighi, a spese dei lavoratori!), delle deformazioni operate dai mezzi di informazione, della non-informazione e della loro diretta dipendenza dai centri di potere... insomma, di tutto ciò che ha portato la "ragion di stato" a schiacciare i meccanismi democratici, ma rischierei di sconfinare nel banale. Si tratta soltanto di capire qual è la "ragion di stato" che preferiamo e schierarci di conseguenza.
Ho sempre creduto che gli italiani e i russi avessero molto in comune. Non ho cambiato idea.
giovedì 26 luglio 2012
venerdì 20 luglio 2012
Intervista a Laila - DDR anni '80 - parte 4
Vorrei raccontare un
episodio di cronaca nera.
Non abitavamo lontano dal centro di Lipsia, ma dominava il grigio. L’illuminazione artificiale era insufficiente: la sera era buio. I palazzi erano curati, ma cupi. Di sera le insegne erano ovunque spente. Il palazzo dell’Università “Karl Marx” era il mio preferito, il più bello dell’intera città.
C’erano pochi taxi in giro. Di notte, poi… La mia amica angolana, bella donna di colore, arrivata molto tardi alla stazione di Lipsia e stanca di attendere, decise di accettare un passaggio da un signore che si era fermato offrendosi gentilmente di accompagnarla. Era consuetudine che i privati, dietro compenso, si sostituissero alle macchine pubbliche. Gli diede il nostro indirizzo e la vettura partì. Lei conosceva la strada. In pochi minuti si accorse che stavano sbagliando direzione e si rivolse al guidatore interrogandolo sul resto del percorso. Lui restò zitto. Poi farfugliò qualcosa. Un attimo dopo prese una stradina laterale, la classica viuzza isolata. La mia amica realizzò a quale grandissimo pericolo stava andando incontro. Ad auto in corsa, aprì la portiera e si buttò tra i sacchi di spazzatura. Si nascose nel palazzo attiguo e attese che il malintenzionato sparisse. Si rivolse alla polizia. Rientrò scioccata. Le dissi che sarebbe stato difficile per i poliziotti intercettare il colpevole e che, magari, vedendola così, straniera, non le avrebbero nemmeno creduto e si sarebbero dimenticati tutto in breve tempo. Dopo due o tre anni si seppe di fatti di violenza su donne avvenuti nello stesso luogo e con le medesime modalità. Il principale indiziato fu arrestato. Lavorava nei pressi dello scalo ferroviario. La mia amica ne fu informata dalla polizia.
Dai giornali non trapelava mai nulla. Non c’era spazio per la cronaca nera. Di conseguenza, spesso la sera tardi, camminavo in perfetta solitudine fino al centro telefonico per le mie chiamate internazionali e non avevo paura di niente. [FINE]
Non abitavamo lontano dal centro di Lipsia, ma dominava il grigio. L’illuminazione artificiale era insufficiente: la sera era buio. I palazzi erano curati, ma cupi. Di sera le insegne erano ovunque spente. Il palazzo dell’Università “Karl Marx” era il mio preferito, il più bello dell’intera città.
C’erano pochi taxi in giro. Di notte, poi… La mia amica angolana, bella donna di colore, arrivata molto tardi alla stazione di Lipsia e stanca di attendere, decise di accettare un passaggio da un signore che si era fermato offrendosi gentilmente di accompagnarla. Era consuetudine che i privati, dietro compenso, si sostituissero alle macchine pubbliche. Gli diede il nostro indirizzo e la vettura partì. Lei conosceva la strada. In pochi minuti si accorse che stavano sbagliando direzione e si rivolse al guidatore interrogandolo sul resto del percorso. Lui restò zitto. Poi farfugliò qualcosa. Un attimo dopo prese una stradina laterale, la classica viuzza isolata. La mia amica realizzò a quale grandissimo pericolo stava andando incontro. Ad auto in corsa, aprì la portiera e si buttò tra i sacchi di spazzatura. Si nascose nel palazzo attiguo e attese che il malintenzionato sparisse. Si rivolse alla polizia. Rientrò scioccata. Le dissi che sarebbe stato difficile per i poliziotti intercettare il colpevole e che, magari, vedendola così, straniera, non le avrebbero nemmeno creduto e si sarebbero dimenticati tutto in breve tempo. Dopo due o tre anni si seppe di fatti di violenza su donne avvenuti nello stesso luogo e con le medesime modalità. Il principale indiziato fu arrestato. Lavorava nei pressi dello scalo ferroviario. La mia amica ne fu informata dalla polizia.
Dai giornali non trapelava mai nulla. Non c’era spazio per la cronaca nera. Di conseguenza, spesso la sera tardi, camminavo in perfetta solitudine fino al centro telefonico per le mie chiamate internazionali e non avevo paura di niente. [FINE]
mercoledì 18 luglio 2012
Intervista a Laila - DDR anni '80 - parte 3
In occasione di una
visita del partito ad Erich Honecker, mio padre volò a Berlino. Lo raggiunsi
per stabilire il da farsi. Lui alloggiava in un grande albergo internazionale, mentre
io preferii dormire da un’amica.
Cadde il muro. La Germania si sarebbe presto riunificata. Non volevo tornare in Marocco a mani vuote, ma a Lipsia le prospettive non erano buone. Un esame non fondamentale stava bloccando la mia carriera di studentessa universitaria.
Un’amica si era da poco trasferita ad Amburgo e, grazie all’aiuto di un collega siriano, potei disporre di una lista di indirizzi degli ospedali della stessa città. Mandai quindi curricula all’Ovest per tentare la carriera infermieristica, una perfetta combinazione di scuola e lavoro.
Mio padre adorava la DDR. Però la DDR non era un paradiso. Non esiste il paradiso sulla terra. Per studiare andava benissimo, non posso negarlo: quante possibilità! Ma non era credibile quel telegiornale senza notizie dall’estero, senza cenni ai problemi economici interni…
Per una serie di circostanze fortunate ottenni una carta di soggiorno con validità illimitata. Poco prima della fine dell’esperienza socialista della DDR fui chiamata in questura per ristampare la carta di soggiorno. In quel periodo bastava dimostrare di avere un fidanzato tedesco per vedersi rilasciare un libretto rosso, tipo carta d’identità, che rendeva i possessori “stranieri privilegiati”. Potevo quindi restare a mio piacimento.
Ad Amburgo cambiai rotta. Mi passò la voglia di insistere con la stomatologia. Rifare l’esame per la quarta volta non era possibile. La mamma mi chiedeva, ma hai studiato? Certo che avevo studiato. Io, a quel punto, volevo solo una cosa sicura: un diploma. Quando giunsero i miei documenti alla questura di Amburgo, notai una corposa cartella sulla scrivania del poliziotto: dal mio arrivo tutto era stato registrato. Ebbi qualche timore per l’eventuale contestazione della concessione del permesso di soggiorno illimitato, ma era tutto in ordine. Ci tenevo a restare. Dopo alcuni anni avrei ottenuto persino la cittadinanza.
Ogni tanto la mia caposala mi portava a fare l’aperitivo vicino alla stazione, nel bar di un hotel elegante. Passavamo la serata chiacchierando con infermieri della clinica.
Gita a Weimar. In pullman, giornata pesante, visita al campo di concentramento di Buchenwald, cancello aperto da un ex prigioniero… come un museo: tante foto e reperti dell’orrore, Frau Koch… ascoltare è una cosa, vedere è un’altra.
Alla fine decisi di
restare a Lipsia e divenni aiutante in una clinica per la chirurgia
maxillo-facciale, in attesa di ripartire con gli esami. Nella clinica le mie
mansioni erano le più svariate.
Prestai servizio per un
anno. Chiesi ad una dottoressa di essere presente al mio ormai prossimo “nuovo”
esame di patofisiologia, soprattutto per capire se i fallimenti precedenti erano
da imputare a mie mancanze o ad altro. Lei purtroppo non venne. La compagna
tedesca, al mio fianco, rispose ad una sola domanda e passò l’esame. Io risposi
a due domande e fui respinta per la terza volta. Sembrava che il professore volesse
comunicarmi: perché insisti, perché ritorni?Cadde il muro. La Germania si sarebbe presto riunificata. Non volevo tornare in Marocco a mani vuote, ma a Lipsia le prospettive non erano buone. Un esame non fondamentale stava bloccando la mia carriera di studentessa universitaria.
Un’amica si era da poco trasferita ad Amburgo e, grazie all’aiuto di un collega siriano, potei disporre di una lista di indirizzi degli ospedali della stessa città. Mandai quindi curricula all’Ovest per tentare la carriera infermieristica, una perfetta combinazione di scuola e lavoro.
Mio padre adorava la DDR. Però la DDR non era un paradiso. Non esiste il paradiso sulla terra. Per studiare andava benissimo, non posso negarlo: quante possibilità! Ma non era credibile quel telegiornale senza notizie dall’estero, senza cenni ai problemi economici interni…
Per una serie di circostanze fortunate ottenni una carta di soggiorno con validità illimitata. Poco prima della fine dell’esperienza socialista della DDR fui chiamata in questura per ristampare la carta di soggiorno. In quel periodo bastava dimostrare di avere un fidanzato tedesco per vedersi rilasciare un libretto rosso, tipo carta d’identità, che rendeva i possessori “stranieri privilegiati”. Potevo quindi restare a mio piacimento.
Ad Amburgo cambiai rotta. Mi passò la voglia di insistere con la stomatologia. Rifare l’esame per la quarta volta non era possibile. La mamma mi chiedeva, ma hai studiato? Certo che avevo studiato. Io, a quel punto, volevo solo una cosa sicura: un diploma. Quando giunsero i miei documenti alla questura di Amburgo, notai una corposa cartella sulla scrivania del poliziotto: dal mio arrivo tutto era stato registrato. Ebbi qualche timore per l’eventuale contestazione della concessione del permesso di soggiorno illimitato, ma era tutto in ordine. Ci tenevo a restare. Dopo alcuni anni avrei ottenuto persino la cittadinanza.
Qualche accenno alla vita
di tutti i giorni.
A Lipsia imparammo il
tedesco parlando tra noi stranieri. Non si faceva sport. Si passava molto tempo
nell’ “internat”: si cenava insieme, si beveva un caffè... i mongoli facevano
gli involtini, i polacchi e i russi portavano la vodka… Niente discoteca. C’erano
feste dell’università, feste a tema. Fare la spesa per noi era già tanto! A
Casablanca era più facile trovare gli alimenti che occorrevano. A volte, a
Lipsia, si doveva fare la scorta di acqua tonica, perché poi spariva dagli
scaffali per settimane intere!Ogni tanto la mia caposala mi portava a fare l’aperitivo vicino alla stazione, nel bar di un hotel elegante. Passavamo la serata chiacchierando con infermieri della clinica.
Gita a Weimar. In pullman, giornata pesante, visita al campo di concentramento di Buchenwald, cancello aperto da un ex prigioniero… come un museo: tante foto e reperti dell’orrore, Frau Koch… ascoltare è una cosa, vedere è un’altra.
Prima di iniziare
l’università, nel settembre del 1985, appena tornata dal Marocco mi offrii per
la settimana del lavoro volontario e trascorsi una settimana a raccogliere patate
in campagna. Nessuno degli stranieri partecipò. Fui l’unica. Mi fu assegnato un
letto in una vecchia casetta e lavoravo accanto ad una signora anziana che non
mi capiva, che rideva con me e io ridevo con lei: molto gentile! Dopo il lavoro
uscivo con i colleghi tedeschi. Una sera pagai una bottiglia e loro ne furono sorpresi.
Non tanto per l’Islam, quanto per la disponibilità, l’autonomia, che a loro
dava da pensare. Anche i viaggi: a loro pesava non poter… le macchine, poi… io
avevo una vecchia Fiat, comprata in Polonia, con cui ebbi un incidente nel 1989.
La Trabant che mi venne addosso mentre facevo retromarcia per uscire da un
parcheggio perse completamente la parte anteriore… paraurti e altro… la mia Fiat?
Niente. Incredibile. Bisognava aspettare anni per un’auto dai colori tristi…
giallino, verdino... quando c’era la fiera a Lipsia le macchine dell’Ovest
risaltavano e facevano impressione.
Ogni tanto andavo a
Erfurt da mio fratello. Aveva una tv che riceveva canali occidentali: normale.
Lo seguivo alle feste. Lui aveva la moglie tedesca e una figlia. Ero zia. Mio
fratello si era sposato prima del mio arrivo. Ora abitano tutti a Casablanca. Mio
fratello, all’epoca della svolta, aveva trent’anni. Dopo la riunificazione
preferì tornare in Marocco. Sua moglie, ottica esperta, molto preparata, aveva
studiato a Jena (città di fama mondiale
per le studio delle scienze e per le industrie ottiche, nda). I tedeschi
parlano l’arabo meglio del francese! [continua]sabato 14 luglio 2012
Intervista a Laila - DDR anni '80 - parte 2
Nel corso del primo anno mi dedicai all’apprendimento della lingua tedesca.
Fui obbligata a tenere la valigia chiusa per diversi giorni dopo il mio arrivo. E’ un ricordo davvero brutto. Non avevo il diritto di aprire il bagaglio. Andavano prima disinfettati i vestiti. Ciò mi offese. Era una regola valida nei confronti degli stranieri. I tedeschi erano molto “tedeschi”. Alla fine, grazie all’intervento di un amico di mio fratello, ottenni una deroga entro la prima settimana. Giunta a Lipsia la sera tardi, senza saper parlare tedesco, in stanza con una ragazza con cui non potevo comunicare, la valigia chiusa, mi buttai sul letto di sopra con la radio… lasciare Casablanca per Lipsia… disorientamento. Anche scegliere cosa mangiare era un problema… non avevano lo yogurt come qui da noi, lì era tutto venduto in anonime bottiglie. Piano piano mi abituai. Dalla prima stanza fui trasferita ad un’altra occupata da due ragazze, una yemenita ed una sudanese. Era stato stabilito che le ragazze arabe avrebbero condiviso gli stessi spazi, così, per diminuire l’impatto con le novità. Iniziai da subito a frequentare lo Herder Institut per apprendere rapidamente la lingua tedesca. Avevo insegnanti molto in gamba. Ci insegnarono l’essenziale per ambientarci, dal come prendere il tram per raggiungere la scuola al cosa comprare per affrontare adeguatamente l’inverno dal punto di vista dell’abbigliamento. Ci accompagnarono persino a fare “shopping”. Presi una mantellina, stivali… Fummo divisi in classi. Non si studiava solo il tedesco. I corsi spaziavano dalla matematica alla fisica, dalla chimica alla storia: in tedesco. Tutto per valutare la nostra preparazione, anche se eravamo diplomati. A partire dall’anno successivo, con l’inizio degli studi universitari, mi spostai in uno stabile che sorgeva in una via parallela, vicino al primo, e che ospitava gli studenti “fuorisede” di medicina, anche i tedeschi. Le stanze, come ho già detto, erano principalmente con quattro letti, due occupati da tedeschi e due da stranieri. Le stanze a due letti erano riservate ai privati. Condivisi la stanza con due tedesche e una ragazza angolana. Stare coi tedeschi era dura. Usavano la stanza per vivere e studiare. Per noi fu un grande handicap. Non avevamo più spazio per respirare, per rilassarci. Noi studiavamo in biblioteca! La stanza era come casa nostra. I tedeschi, che restavano nel convitto dal lunedì al venerdì, studiavano anche in camera. Negli anni ci furono discussioni. Anche per il fumo. Io fumavo, ma fuori. Quando uno studia in stanza, non puoi parlare né ascoltare musica. A pochi passi dall’alloggio c’era una biblioteca meravigliosa, ma loro stavano sempre in camera… fin quando non riuscimmo ad avere stanze senza tedesche. Due anni con le tedesche, però…
La stanza era uno open space con due letti a castello, quattro sedie, quattro armadi e un bagno sul piano ad uso di una dozzina di persone. Gli otto piani erano misti. Ogni piano era doppio: sul rialzato una grande cucina con mega-frigo e cassetti personali. Si tendeva, però, a preparare cibi e bevande in camera con mezzi propri. Per scaldare l’acqua si usavano bollitori a immersione (vietati). Per cucinare ci procurammo una piccola piastra elettrica da usare in camera. La cucina in comune era un problema. Chi puliva, chi non puliva. Dovevamo continuamente provare a metterci d’accordo. Se un giorno pulivi tu, l’indomani avrei dovuto pulire io. Ma c’era sempre qualcuno poco propenso a pulire. Col tempo, decidemmo che ognuno avrebbe badato a sé. E quanti scarafaggi in cucina! Tanti scarafaggi ovunque, però, anche nei posti dove più tardi mi sarebbe capitato di lavorare. Talvolta, in certi ambienti, bisognava lasciare la luce accesa di notte per evitare di trovare il pavimento invaso dalle blatte al momento di rientrare. Non riuscivano a disinfestare! Erano troppi.
Tutto bene nello studio, sia per il primo che per il secondo anno. Tranne che per l’esame di marxismo-leninismo. Anche mio padre fu molto contrariato da questo “stop”. Noi stranieri dovevamo obbligatoriamente sostenere l’esame, che invece non era previsto per i tedeschi. Bisognava studiare su un libro rosso e su uno blu. Ma io dicevo, queste leggi... non me la sento di studiarle. L’insegnante non faceva nulla per venirci incontro. Io pensavo, non devo mica diventare un politico. Anche mio padre lo diceva, tu studia e poi torni in Marocco, lascia stare la politica, a meno che tu non ci tenga per convinzione personale. Fui costretta a ripetere il test. Tornata nella DDR dopo le vacanze estive, passai l’esame approdando così al terzo anno. Mi aspettavano altri numerosi e difficili esami. Superati quelli di farmacologia e microbiologia, mi scontrai con un enorme scoglio: il professore di patofisiologia. Sembrava che tutto fosse andato bene, ma al termine dell’esame mi spiegò che secondo lui non avevo risposto bene alla seconda domanda e che quindi voleva risentirmi. Esame da rifare. Non avevamo nemmeno un libro, studiavamo sugli appunti. Presi contatto con la migliore studentessa dell’università, i suoi appunti e i miei... seconda prova. Risposi a tutte le domande di una professoressa molto severa, che alla fine mi bocciò non senza commentare che ero intelligente e che dicevo cose giuste, ma che non poteva farmi passare. Mi arrabbiai. Pensai che intendessero farmi fuori. Forse non ero persona gradita. In seguito feci domanda per affrontare una terza prova, ma, incredibilmente, dall’università risposero che non avrei potuto, poiché non avevo ancora passato gli esami di farmacologia e microbiologia. Ma io li avevo passati, eccome! A differenza di quanto accaduto ad un'amica polacca, che aveva sostenuto uno degli esami insieme a me, non erano stati riportati gli esiti nella mia cartella personale! E il professore che mi aveva interrogata nell’altra materia, senza testimoni, era deceduto! Pensai, qui fanno sparire la gente. Alla fine riuscii a chiarire e a propormi per il terzo tentativo in patofisiologia. Volevo andare via da Lipsia. Non mi fidavo più. Ma ero dubbiosa, anche in proposito all'eventualità di trasferirmi a Berlino. Per quanto ne sapevo, lì sarebbe stato meglio, infatti gli esami si pianificavano con maggior agio, senza blocchi di tipo burocratico. Fu un periodo di confusione e indecisione. [continua]
venerdì 13 luglio 2012
Intervista a Laila - DDR anni '80 - parte 1 - non presente nel libro
"Viaggi Pianificati" arricchisce l'offerta: abbiamo appena finito di registrare un'intervista con Laila, donna di origine marocchina ora residente nel nostro paese, che regalerà ai lettori uno spaccato molto originale della vita nella DDR. Vi ha abitato per sei anni, fino alla riunificazione. Buon divertimento! [Ricordo ai lettori che questa intervista non è presente nel libro. LDG]
Papà si fece carico del costo del viaggio. Nella DDR, come studentessa straniera, avevo diritto ad un sussidio pari a duecento marchi orientali: una cifra rispettabile. Disponevo di un letto in un “internat” (convitto, nda) studentesco dotato di stanze da quattro posti, con letti a castello, cucina e bagni in comune. Vi risiedevano giovani provenienti da tutto il mondo. Alcuni fuggivano da paesi che erano teatro di durissime repressioni. La mia amica guatemalteca, ad esempio, da tempo non aveva più notizie del padre, professore universitario, e della sorella: svaniti nel nulla da un giorno all’altro. Ricordo ospiti boliviani, angolani, etiopi, portoghesi, diversi marocchini, anche figli di appartenenti ad altre organizzazioni politiche. Noi stranieri potevamo aprire un conto in banca. Grazie ai soldi del governo potevo mangiare, vestirmi e comprare beni di base. Pagavo solo 10 marchi per il mensile del posto letto. In cantina c’erano lavatrici per tutti! Quanto al mangiare, un po’ di difficoltà… noi abituati alle verdure… i tedeschi avevano solo mele e patate! Pomodori? Non ne vedevamo mai, solo quando c’era la fiera a Lipsia, con prodotti internazionali e turisti carichi di valuta. Si tenevano una o due fiere all’anno, con buon afflusso di tedeschi occidentali. Noi potevamo allora far valere la nostra valuta nazionale, diversamente dai compagni del posto. Non c’era attrito solo tra studenti provenienti da mezzo mondo, ma anche e soprattutto tra noi e i locali. I tedeschi, nati nella DDR, non avevano la possibilità di acquistare quello che potevamo comprare noi. Non potevano andare a Berlino Ovest. Noi sì, con il visto. Io non approfittai mai di questa corsia preferenziale, ma altri… greci e ciprioti, ad esempio, sì. Prendevano il treno e passavano all’Ovest. I più indipendenti erano gli studenti privati, che potevano contare su una situazione economica familiare tale da rendere la loro permanenza nella DDR al di sopra degli standard. Infatti, la DDR accettava anche studenti privati, non solo comunisti. Lo studio in Germania era tenuto in alta considerazione. La stessa Università di Lipsia, la “Karl Marx”, si collocava ad un livello molto alto nel panorama europeo e mondiale. [continua]
Mio padre era membro del Partito Socialista del Marocco. Grazie al suo interessamento, nel settembre del 1984, quando avevo solo vent’anni, mi trovai di fronte alla straordinaria opportunità di recarmi nella DDR per proseguire gli studi. Mi trasferii quindi a Lipsia per studiare stomatologia. Mio fratello viveva già da tempo in Germania Est e proprio nell’84, appena laureato in medicina, lasciò Lipsia e per spostarsi ad Erfurt dove avrebbe iniziato la specializzazione in chirurgia pediatrica.
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