Silvia visitò l’Unione Sovietica nel 1990, quando aveva diciannove anni e frequentava l’università. Ai tempi del liceo aveva partecipato ad un concorso scolastico. Il primo premio, un viaggio nell’URSS destinato all’autore del miglior tema, era stato vinto da una sua compagna di classe. Al suo ritorno la ragazza aveva distribuito una serie di indirizzi di cittadini russi che cercavano corrispondenti in italiano per diventare amici di penna. Anche a Silvia era toccato un nome…
Io avevo ricevuto l’indirizzo di un giovane di Leningrado, Jura, che scriveva molto bene!
Ci accordammo per uno scambio di visite.
Dovetti recarmi parecchie volte al consolato russo. File interminabili, procedura lunghissima. Serviva l’invito, una volta mancava questo, un’altra quello…
Partii verso la fine di ottobre con mio fratello Folco, di sedici o diciassette anni. Per entrambi si trattava della prima esperienza in un viaggio non organizzato, da soli.
La partenza fu un’avventura. A Milano ci imbarcammo con un’ora di ritardo. In zona “check-in” ci fecero mille raccomandazioni. Spiegarono che in quel periodo la gente cercava di far entrare illegalmente un mucchio di cose nei paesi in cui non era possibile farlo legalmente e che non dovevamo dar corda a nessuno. Pochi istanti dopo, per l’appunto, fummo fermati da un tipo che chiese se potevamo essere tanto gentili da voler recapitare una busta all'aeroporto di Leningrado. Disse che conteneva solo documenti. Noi ribattemmo che non avremmo portato un bel niente.
Primo intoppo. A Mosca, dopo l’atterraggio, ci comunicarono che era necessario cambiare aeroporto. Occorreva passare dal “Seremetevo 2” all’ “1”, per poi prendere il volo interno diretto a Leningrado. Anche lì, mille raccomandazioni. Soprattutto bisognava star lontani dai taxi abusivi. Non si trovavano in alcun modo taxi di Stato e incappammo subito in un tassista abusivo. Per cercare questi benedetti taxi di Stato ci allontanammo dalla zona dell’aeroporto e finimmo in un luogo isolato. Un uomo, dopo essersi avvicinato, disse che per dieci dollari ci avrebbe accompagnati allo Seremetevo 1. Non sapevamo più cosa fare. Carichi di bagagli, finimmo per accettare. Ci fece salire su un autobus vuoto, seminascosto in un parcheggio molto buio, e partì a fari spenti. Io e mio fratello ci guardammo esprimendo non poca preoccupazione. Attraversammo una zona deserta, una specie di boschetto. Pensai al mio ombrello: al limite avrei sempre potuto rifilargli un’ombrellata. Fortunatamente ci lasciò, come pattuito, allo Seremetevo 1. Scoprimmo che di giorno faceva l’autista, mentre la sera usava l’autobus della sua azienda per arrotondare lo stipendio. Pagammo i dieci dollari concordati, che erano tanti soldi per loro, ed entrammo nel terminal. Sembrava una vecchia stazione italiana. Le panche erano di legno, era pieno di russi, tutto era scritto in russo, perciò noi non capivamo assolutamente niente. Nessuno parlava altro che russo, quindi non potevamo capire qual era il nostro aereo! Mio fratello, molto più lucido di me, esclamò: “Guarda! Lì c’è un baracchino con un punto di domanda… vorrà dire Ufficio Informazioni!” Lui parlava inglese, io no. Gli spiegarono che avevamo sbagliato entrata, ci trovavamo nello spazio riservato ai russi. Bisognava uscire ed entrare da un altro ingresso, dedicato agli stranieri. Un altro mondo! Un aeroporto come quelli che eravamo abituati a vedere, con le scritte in inglese e tutto il resto! Incontrammo altri italiani, tra cui uno, come noi, diretto a Leningrado. Al momento dell’imbarco credemmo di far parte di un minuscolo gruppetto. Prendemmo posto sull’aereo, praticamente vuoto: eravamo quattro gatti. Dopo forse mezz’ora, d’improvviso l’aereo si riempì di russi. Le autorità lasciavano salire prima gli stranieri, per offrirgli i posti migliori, poi veniva il turno dei russi, carichi di mercanzie e di oggetti stranissimi. Il mio sedile era rotto, lo schienale si ribaltava in avanti, non si riusciva a stare seduti bene. Noi ci trovavamo in testa e c’era solo una tendina a dividerci dalla zona degli assistenti di volo. Vidi una hostess accucciata per terra con una scatoletta da cui prendeva bocconi di cibo. Durante il viaggio passarono con un vassoio pieno di tazzine di plastica colme d’acqua, dal sapore terribile, tipo acque termali: era l’acqua che ci avrebbe accompagnato per tutto il nostro viaggio. Il nostro incubo! Nei dieci giorni trascorsi in Unione Sovietica bevemmo solo acqua del rubinetto, sapendo che non era potabile. Il fatto era che l’acqua in bottiglia risultava imbevibile, ad eccezione di una sola marca. Tutte le bottiglie d’acqua avevano un’etichetta incomprensibile. Di tanto in tanto capitava in tavola una bottiglia d’acqua buona, senza etichetta. Solo alla fine del soggiorno si seppe che era un tipo d’acqua proveniente dall’Armenia, che ai russi non piaceva perché non sapeva di niente. Era acqua vera! Io avevo portato dall’Italia tre cartoncini di succo di frutta che venivano centellinati per calmare la sete nel corso della giornata e per prepararci alle bevute d’acqua. Si beveva molto tè.
continua...
giovedì 17 settembre 2009
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"Nei dieci giorni trascorsi in Unione Sovietica bevemmo solo acqua del rubinetto, sapendo che non era potabile". Era ed è perfettamente potabile. Contiene una MISERA percentuale del cloruro di calcio, perciò nessun batterio non c'è. Al consumarla durante DECENNI ti rovini i denti, ma in un paio di settimane non ce la farà a farti nessun danno. Nei mesi primaverili la percentuale di cloro viene aumentata un po', per ovvi motivi della piena.
RispondiEliminaCaro Sergio, grazie alle tue precisazioni questo blog diventerà un'affidabilissima fonte di informazioni.
RispondiEliminaUn ingegnere russo di mia conoscienza, progettista dei sistemi di approvigionamento d'acqua (era gia' in pensione), sistemi di scarico ecc. diceva, che la Russia e' l'unico paese nel mondo, dove per lavare pavimenti, fare bucato, annaffiare fiori negli ortaggi ecc., viene regolarmente utilizzata l'acqua di qualita' potabile...
RispondiEliminaMolto interessante! Non l'avrei mai detto!
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