Dall’Armenia fummo catapultati in Georgia, a Tbilisi, città circondata da montagne e colline, molto verde, ricchissima d’acqua (un fiume l’attraversa), tripudio di meloni, tutti i frutti, case con balconi di legno e montanti decorati, bellissima! Anche lì c’era casino, ma senza carri armati. Loro erano degli squinternati. In ogni città era previsto lo shopping nei GUM. I GUM di Leningrado e Mosca erano di una tristezza infinita, con pochissima roba… ti chiedevi “ma qui cosa viene a fare la gente, non c’è niente!”. In Georgia, così come in Uzbekistan e a Jerevan, c’era tutto. Per esempio, a Tbilisi mi informai sulla possibilità di acquistare colori, acquerelli, cartoleria, strumenti di precisione, lenti e altri beni disponibili. Comprai un orologio. All’epoca ero vegetariana, fu proprio dura. Ogni tanto servivano una zuppa con “saponette” galleggianti, cioè pezzi di carne bianca, grassissima. Io mangiavo le guarnizioni di tutti, erbe e pomodori. Dopo la camminata in città, durante una sosta ai GUM, chiedemmo ad una commessa se ci fosse un bagno. Ricevute le indicazioni, ci avviammo. Nel nostro incerto girovagare, notammo una signora che, mentre parlavamo con la commessa, si trovava con noi al banco. Ci seguiva osservandoci. All’improvviso decise di avvicinarsi e, in un inglese perfetto, disse che le era parso di capire che avevamo bisogno di aiuto. Ci accompagnò alla toilette, anche perché le parole scritte in georgiano erano indecifrabili. Con aria imbarazzata spiegò che le dispiaceva di vederci in una situazione tanto strana. Pensai che si riferisse allo sporco, ma mi sbagliavo. Nel bagno delle donne c’erano i lavandini e, in fondo, i servizi veri e propri, senza porte, senza possibilità di chiudersi dentro. Qualcuno aveva appeso, per maggiore protezione, delle tende molli fatte di leggeri cordoncini che oscillavano distanziatissimi. Tutto aperto! La signora disse che capiva il mio imbarazzo. Lei uscì. Aspettai il mio turno, mi feci forza e… fu imbarazzante. La gentile signora, in realtà, aveva uno scopo. Una volta uscita, cominciò a parlare con Sergio, il mio compagno di viaggio, che aspettava fuori. Si presentò dicendogli di essere una matematica sposata con un accademico della scienza e che le sarebbe piaciuto portarci a casa sua per parlare. Voleva avere contatti con l’estero. Era travolgente e gentile fino all’eccesso. Noi provammo a spiegarle che facevamo parte di un gruppo, con tempi contingentati, che dovevamo rientrare in hotel con gli altri, che il giorno dopo saremmo ripartiti, che non eravamo in giro per conto nostro. Lei insisté. Voleva offrirci da bere e da mangiare. Fissammo quindi un appuntamento. Ci sarebbero venuti a prendere ai GUM tre ore più tardi. Sembrava una donna interessante. In appena due ore aveva preparato una tavolata di cibo impressionante, meraviglioso e buonissimo. Ci pregarono di assaggiare tutto. Incontrammo suo marito e la di lei sorella, che era un fisico. Era una famiglia di scienziati. La signora aveva smesso di lavorare all’Accademia delle Scienze in seguito alla nascita dei suoi due bambini. Smaniavano per due motivi: per chiacchierare e per chiedere se noi, dall’Italia, potevamo scrivere per fargli ottenere un visto turistico. Fu Sergio a conversare su questo argomento. Lui si era laureato in ingegneria, lavorava all’Università, di conseguenza poteva toccare temi a loro più familiari. Sergio disse che quello che poteva fare al suo ritorno era chiedere in Università, o in Ambasciata, informazioni sulla procedura. Loro erano molto preparati e dicevano che doveva fare questo e quello. Sergio ribatté che chiedere non costava nulla. Il marito veniva spesso in Europa Occidentale. Il visto sarebbe servito più a lei, che desiderava seguirlo in un viaggio nel nostro Paese. Avevano modi molto cortesi, ma quando si passò a questa discussione i toni si accesero. Raccontavano della loro vita impossibile, del fatto che i georgiani volevano l’indipendenza da sempre e non si sentivano di appartenere all’Unione Sovietica. Volevano tornare ai tempi degli eroi nazionali del XVIII secolo! “Sicuramente,” dissero “in una nostra repubblica indipendente, per noi sarebbe possibile fare tutto quello che vogliamo, come fate voi in occidente”. Sergio provò a spiegare che le cose da noi non stavano così. Parlò del sistema socialista, che aveva livellato tutti e che garantiva una base alla collettività, che certamente non dava la possibilità di emergere più di tanto… si emergeva fino ad un certo punto, nel partito o in altri ambiti controllati. Tentava di fargli capire che da noi, se non “cresci”, puoi diventare uno “spiaccicato per la strada” che nessuno cura, senza nessuna tutela, cosa che da loro non poteva succedere. Cercava di bilanciare il loro esagerato ottimismo riguardo all’avvenire dell’occidente. Di sicuro, uno come il professore da noi avrebbe avuto un altissimo tenore di vita, neanche lontanamente paragonabile a quello della sua realtà quotidiana. Lui, che aveva viaggiato in Europa e in America, lo sapeva. Ad un tratto chiesero se eravamo comunisti e noi: “Sì certo! Comunisti italiani!”. Ci attaccarono: “Ma allora voi difendete…” eccetera, eccetera, la solita storia, “Stalin…”.
La cosa andò avanti. Assolvemmo il nostro compito. La signora riuscì ad accompagnare il marito in Italia.
continua...
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